Il risarcimento del danno da infedeltà coniugale: verso un superamento dell’addebito della separazione?

Avv. Antonella Saccomani.

Una breve riflessione sull'evoluzione del dovere di fedeltà coniugale e del rapporti tra addebito e risarcimento del danno, alla luce della recentissima ordinanza della Corte di Cassazione (26383/2020).

Giovedi 10 Dicembre 2020

La recentissima e ormai nota ordinanza della Corte di Cassazione (26383/2020) ha confermato l’applicabilità del rimedio risarcitorio alla violazione del dovere di fedeltà coniugale, a prescindere dalla pronuncia di addebito della separazione, “sempre che [tuttavia] la condizione di afflizione indotta nel coniuge superi la soglia della tollerabilità e si traduca, per le sue modalità o per la gravità dello sconvolgimento che provoca, nella violazione di un diritto costituzionalmente protetto, quale, in ipotesi, quello alla salute o all’onore o alla dignità personale”.

La risarcibilità del danno causato dalla violazione di uno degli obblighi previsti ai sensi dell’art. 143 c.c. rappresenta certamente una conquista della sensibilità contemporanea: il coniuge non è più tutelato unicamente in quanto tale, ma innanzitutto in quanto persona.

Il dovere di fedeltà è particolarmente interessante non tanto e non solo per essere, tra tutti gli obblighi coniugali, il più evocato, piuttosto poiché ci aiuta a capire in che modo la famiglia – e la percezione di essa che ha la società - è cambiata nel corso del tempo.

Il dovere di fedeltà evolve, sia quanto ai rimedi esperibili nell’ipotesi di violazione dello stesso, sia quanto a contenuto e rilevanza.

L’infedeltà è stata per lungo tempo sanzionata penalmente in quanto rientrante in una dimensione pubblicistica: il pater familias, a capo di una struttura familiare gerarchica ed autoritaria, rappresentava una longa manus dello Stato nel preservare valori di unità ed indissolubilità. Con l’introduzione del principio di uguaglianza tra i coniugi, l'obbligo di fedeltà coniugale ha subito una profonda evoluzione, da mero ius in corpus è infatti diventato espressione della comunione morale e materiale tra marito e moglie, riconducibile ad un generico dovere di lealtà e tutelato in ambito giusfamiliare.

Negli ultimi anni, hanno trovato spazio figure come quella dell’infedeltà platonica, apparente, virtuale: la mera trasgressione sessuale non esaurisce certo l’obbligo di fedeltà, essendo piuttosto la lealtà tra i coniugi a costituirne la reale espressione. Da ultimo, il legislatore del 2016, nel regolamentare le unioni civili tra persone dello stesso sesso, ha eliminato l’esplicito riferimento alla fedeltà tra i doveri nascenti dall’unione (cfr. art. 1, c. 11, Legge 20 maggio 2016, n. 76).

Oggi, l’individuo, pur inserito in un contesto familiare, è autonomo centro di interessi e come tale viene tutelato, anche con la tutela risarcitoria. Diversamente, la famiglia sarebbe un luogo di “compressione dei diritti irrinunciabili, quali quello alla salute, all'incolumità personale, all'onore e gli altri diritti personalissimi dell'individuo” (Tribunale di Milano, 10/02/1999, in Fam. Dir., 2001, 185 ss.).

L’applicabilità della tutela risarcitoria all’ipotesi di violazione del dovere di fedeltà - nei limiti richiamati dall’ordinanza della Suprema Corte - può certamente aiutare anche a sopperire alla scarsa efficacia dei rimedi “tradizionali” del diritto di famiglia.

È infatti innegabile che l’addebito sia un rimedio eventuale e discriminatorio nei confronti del coniuge debole. Basti pensare che il coniuge cui viene addebitata la separazione perde, tra gli altri, il diritto a ricevere un assegno di mantenimento: va da sé che quando è il coniuge economicamente più forte ad essere sanzionato con lo strumento dell’addebito, la sanzione è inefficace, inutiliter data.

In ogni caso, l’addebito non deve e non può sorgere automaticamente in seguito alla condotta infedele di uno dei coniugi, atteso che nel sistema vigente il giudice deve determinare, anche e soprattutto nell’ambito di una valutazione globale dei comportamenti dei coniugi, se la crisi coniugale sia o meno riconducibile a tale condotta.

Diversamente, la separazione non può che conservare la sua natura più di rimedio che di sanzione e l’infedeltà non può che essere (dovrebbe essere) giuridicamente irrilevante.

E qui può entrare in gioco la tutela risarcitoria: nel tradimento posto in essere nell’ambito di una situazione coniugale già irrimediabilmente compromessa; o, ancora, nel caso separazione definita consensualmente, non potendo l'accordo essere interpretato come una rinuncia o una transazione circa le conseguenze risarcitorie derivanti dalla condotta del coniuge. Più in generale, se e in tutti i casi in cui la condotta infedele sia stata posta in essere con modalità di tale gravità da violare un diritto costituzionalmente protetto, la salute fisica o psichica, la dignità, l’onore, la reputazione.

Ci si chiede dunque, alla luce di quanto sopra, se l’addebito davvero possa essere ritenuto uno strumento ancora attuale o se, piuttosto, sia arrivato il momento di considerare la separazione davvero come un rimedio, abbandonando la (talvolta forzata) ricerca di un “colpevole” nella crisi coniugale e di spostare eventuali responsabilità sul piano risarcitorio, ove ve ne siano i presupposti.

Allegato:

Pagina generata in 0.019 secondi