Una recente decisione della Cassazione, Sez.V, resa all’udienza del 28 marzo 2025,riapre la discussione irrisolta della illegittimità dell’impugnazione della Ordinanza emanata in base al controverso art.129bis CPP che disciplina l’ammissione alla Giustizia Riparativa dell’imputato e della Vittima di un reato.
Lunedi 28 Aprile 2025 |
Con tale decisione, la Suprema Corte, chiamata a pronunciarsi «se, per quali motivi e in quali ipotesi, sia ricorribile per cassazione il provvedimento con cui il Giudice del merito rigetta la richiesta di invio al Centro di riferimento per l’avvio di un programma di giustizia riparativa ai sensi dell’art.129-bis CPP”una volta riscontrato l’acceso contrasto giurisprudenziale ma anche Dottrinale sul punto, ha deciso di rimettere la questione alle Sezioni Unite (v Ordinanza in calce)
Invero, sin dalle prime applicazioni della nuova disciplina, introdotta dal D.Lgs.150/2022,sono sorti alcuni orientamenti interpretativi difformi sul tema della impugnabilità della decisione di rigetto della lrichiesta di accesso ai relativi programmi (cfr V.Bonini-Maggio, L’impugnazione dei provvedimenti a caratura riparativa: equilibri e squilibri tra sistemi, in Sistema Penale,,5/2024, p. 5 ss.).
Invero, un primo orientamento, sviluppatosi sin dalla entrata in vigore della nuova disciplina, ritiene inammissibile il ricorso per cassazione avverso il provvedimento di rigetto, poiché lo stesso non avrebbe natura giurisdizionale e, pertanto, non sarebbe suscettibile di impugnazione (v. Cass., Sez. II,7 novembre 2024, n. 46018;Cass., Sez. III,4 giugno 2024, n. 24343; Cass., Sez. II,12 dicembre 2023, n. 6595, in CED. Cass., n. 285930).
Un secondo e più recente orientamento, è scaturito, ma anche confermato, da una recente decisione della Terza sezione penale innanzi citata.
In base ad essa, sarebbe ricorribile per Cassazione, unitamente alla sentenza che definisce il grado di giudizio ai sensi dell’art. 586 CPP, «l’Ordinanza reiettiva della richiesta di accesso ai programmi di giustizia riparativa pronunciata dal Giudice su istanza dell’imputato, senza alcuna distinzione tra reati procedibili a querela suscettibile di remissione e reati procedibili d’ufficio».
In tal modo verrebbe ad essere superata la limitazione dell’impugnativa ai soli reati perseguibili a querela e suscettibile di remissione, benché si precisa che colui che impugna il provvedimento è tenuto a«dedurre contestualmente l’interesse alla attenuazione del trattamento sanzionatorio, come possibile conseguenza dell’esito del programma di giustizia riparativa» (Cass., Sez. III, ud. 26 febbraio 2025,cit.).
Occorre, anche, evidenziare una recente decisione della Suprema Corte, Prima Sezione, del 21 novembre 2024 n. 8400 che va annoverata in questo ampio dibattito poiché mostra di condividere l’orientamento che ha delineato una prima apertura in materia (v.Cass., Sez. III,7 giugno 2024, n. 33152, in CED. Cass., n. 286841).
Infatti, la pronuncia citata ha ammesso l’impugnazione, ai sensi dell’art. 586, comma 1 CPP, dell’Ordinanza con la quale viene respinta l’istanza ex art. 129-bis CPP laddove sia stata «emessa durante il compimento degli atti preliminari o nel corso del dibattimento (ovvero nel corso del giudizio di appello)» purché «la richiesta risulti avanzata dall’imputato e riguardi reati procedibili a querela suscettibile di remissione, trattandosi del solo caso in cui il suo eventuale accoglimento determina la sospensione del processo».
Di particolare interesse risulta il rilievo svolto in relazione ai reati procedibili d’ufficio o a querela non soggetta a remissione.
Si argomenta nella decisione richiamata che, «posto che nulla impedisce all’interessato di attivarsi autonomamente per accedere al programma di giustizia riparativa, l’intervento del Giudice […] non rappresenta né una condi zione necessaria per l’acquisizione di diritti né sufficiente».
Si sostiene anche che, la stessa circostanza attenuante.introdotta con l’ art. 62,n.6,CP, come modificato dal D.Lgs. n. 150,«non è correlata alla decisione dell’invio di cui all’art. 129-bis., posto che:
a) l’interessato non ha alcuna necessità dell’Ordinanza del Giudice per attivarsi al fine di accedere a programmi di giustizia riparativa;
b) il mero invio non elide la discrezionalità dei mediatori nel ritenere non fattibile il programma».
Ciò posto ed in attesa della decisione dirimente delle SS.UU., vale la pena, ancora una volta, soffermarsi sulla ratio della normativa e sulle sue criticità.
Come ha, di recente, sostenuto E.Dragotto, “malgrado i suoi benefici, di cui si giovano vittime e colpevoli di reati di diversa natura, in Italia fatichiamo a implementare i percorsi di giustizia riparativa a causa di cavilli normativi e diffidenza culturale”(v. Riv Lucy sulla cultura, Febbraio 2025).
In Dottrina é ormai diffusa l’opinione che si stia assistendo ad una vera e propria “crisi di rigetto”della Giustizia Riparativa da parte del nostro Sistema ancorato, sia nella fase del processo quanto, soprattutto, in quella dell’esecuzione penale, al paradigma della “giustizia punitiva”(v.Fiorentin, Giustizia Riparativa, prospettive e crisi di una Riforma, in Riv Sistema Penale Marzo 2025).
Ne sono riprova lo scarso numero di sentenze emanate dai Tribunali che potrebbero fornire utili elementi di valutazione sull’esito dei procedimenti riparativi
Per contro, nella Legge Cartabia, il termine giustizia riparativa indica ogni programma che permetterebbe a chi è stato coinvolto in una vicenda penale (autori e Vittime di reato) di lavorare sulle conseguenze che la violenza ha avuto, con l’aiuto di un terzo imparziale, definito, appunto, facilitatore ovvero mediatore.
Il confronto consentirebbe anche agli autori di reato di acquisire consapevolezza delle proprie azioni e dei loro effetti, inducendoli, in alcuni casi a riparare, almeno in parte, al danno arrecato, come, ad es., rispondendo adeguatamente alle domande risarcitorie delle Vittime.
I dialoghi previsti tra le due parti non devono per forza essere diretti e possono svolgersi attraverso lo scambio di lettere o venendo riferiti a voce tramite i mediatori.
I responsabili dei reati commessi potrebbero anche incontrare le Vittime di reati analoghi, cd. aspecifiche o surrogate, una pratica che si è diffusa molto, ad es.in Francia, nei casi cui, quando non sia possibile un dialogo con le Vittime dirette, si è scelto di coinvolgere una “Vittima surrogata” dalla forte funzione rappresentativa,
Quello di restorative justice, è comunque ritenuto un modello di giustizia complementare e parallelo a quello penale, che individua il cuore del reato non nella violazione di una norma, ma nel danno inferto alle Vittime e, più in generale, alla Comunità.
Per tale ragione, sostiene la Dragone, il suo obiettivo non è punire il colpevole infliggendo una pena adeguata al caso, ma concentrarsi sulle conseguenze che il reato ha avuto su chi l’ha subito.
“La giustizia riparativa nella sua sostanza è un incontro dialogico, pensato prevalentemente per venire incontro alle esigenze delle vittime di reato e immaginare percorsi di riparazione”, come chiarisce Grazia Mannozzi, Direttrice del Centro Studi sulla giustizia riparativa e la mediazione penale dell’UniInsubria, da sempre antesignana della nuova disciplina.
Tuttavia la Giustizia Riparativa, sebbene sia stata regolamentata con la Riforma Cartabia, continua a essere ancora poco diffusa per diverse ragioni.
Le infrastrutture, ovvero gli spazi dove poter svolgere i programmi riparativi, al momento sono concentrate solo in alcune parti del territorio italiano ma in altre mancano del tutto.
Sussiste, inoltre, un’empasse burocratica poiché la Legge ha stabilito che la formaazione dei mediatori, figure professionali presenti agli incontri tra vittime e autori di reato, è di esclusiva competenza delle Università in collaborazione con i Centri, che tuttavia sono ancora da istituire.
A ciò si aggiunge il fatto che l’attuale Esecutivo non sembra considerare i programmi riparativi una priorità.
Peraltro, l’Opinione Pubblica spesso scambia queste pratiche come una concessione agli autori di reato, frutto di un approccio buonista, sebbene non prevedano sconti di pena o altri benefici, proprio perché non si sostituiscono al sistema penale.
Per contro, in altri Paesi, come il Belgio, in cui questi programmi hanno una lunga tradizione e servizi ben organizzati, e, di frequente, sono le stesse Vittime a chiedere di potervi accedere per ottenere le risposte che il processo non è riuscito a restituire, ma anche forme di risarcimento economico.
In base alla Riforma i programmi riparativi sono consentiti in qualsiasi fase del procedimento penale, durante e dopo l’esecuzione della pena o a seguito di una sentenza di non luogo a procedere emessa dal Giudice per l’udienza preliminare (GUP), quando l’azione penale si estingue per rimessione della querela.
Inoltre l’unica condizione perché vengano attivati i programmi riparativi è il consenso delle parti, mentre la gravità dei reati non costituisce di per sé un limite.
In base alla Ordinanza ammissiva del Tribunale, i mediatori (che in base alla nuova normativa devono essere almeno due) contattano vittime, indagati o condannati e li invitano a colloqui preliminari per informarli sui principi base della giustizia riparativa, i possibili programmi, e gli esiti positivi raggiungibili.
Tuttavia quello che risulta più semplice nei giudizi ordinari cambia in sede di Esecuzione Penale della sentenza di condanna.
Nonostante tante buone intenzioni del Legislatore, il ricorso alla giustizia riparativa rimane, tuttavia estremamente limitato, specie nel Sistema Carcerario che non è esente da problemi ancora più specifici.
Nel 2023 l’Osservatorio dell’Associazione Antigone, nel ventesimo rapporto sulle condizioni di detenzione, registrava la presenza di programmi riparativi, in senso ampio, in soltanto 13 carceri italiane e con poche centinaia di detenuti coinvolti. Nella prigione di Busto Arsizio (Varese), ad esempio, uno di questi programmi coinvolgeva dieci detenuti sui circa 450 presenti; a Genova Marassi 15 su 690; a Santa Maria Capua Vetere (Caserta) 55 su 990.
Le ragioni di questi numeri limitati sono diverse, dai requisiti stringenti che occorrono per partecipare, fino alla preferenza che molti detenuti hanno per le iniziative che, a differenza dei programmi riparativi, permettono loro di uscire per alcune ore dai penitenziari.
A tanto si aggiunge la mancata esclusione di alcuni reati più gravi dall’accesso ai programmi riparativi, come ricorda la Dottrina prevalente (ad es, per l’art 41bis) e oggetto di esclusione da parte di una recente sentenza della Cassazione.
Secondo Marcello Bortolato, Presidente del Tribunale di Sorveglianza di Firenze, il modello riparativo in Italia sia poco diffuso nelle Carceri, dovuto ad ostacoli di natura esclusivamente culturale sebbene “La giustizia riparativa rappresenta un qualcosa di rivoluzionario perché, nella sua sostanziale contrapposizione alla giustizia punitiva, mette in crisi principi consolidati e molte delle nostre certezze e soprattutto rompe quella verticalità che da sempre assiste il processo” sebbene “la giustizia riparativa sconta purtroppo diffidenze e resistenze ma è una risposta alternativa che ha risvolti sociali molto positivi.
Si preoccupa innanzitutto della vittima, del suo bisogno di essere riconosciuta come tale e poi è fonte di pacificazione sociale, non c’è un Giudice che applica nuove sanzioni”(!!).
Sta emergendo, così, una tendenza svalutativa della giustizia riparativa, nei commenti dottrinali e ripresa in alcune decisioni della Magistratura di sorveglianza, per le quali le iniziative di giustizia riparativa, previste dalla nuova disciplina di accesso ai benefici penitenziari dei condannati per i particolari delitti “ostativi” indicati nell’art.4-bis Ord. Penit., in assenza di una positiva collaborazione con la giustizia (D.L.31 ottobre 2022, n. 162, conv.con mod., dalla L. 30 dicembre 2022, n. 199) che non costituirebbero un presupposto vincolante per il richiedente un beneficio, cioè un vero e proprio requisito di ammissibilità dell’istanza di accesso ai benefici penitenziari, bensì un mero elemento di valutazione in ordine alla meritevolezza del soggetto, che verrebbe valutato dal Giudice se presente ma che non pregiudica l’accesso al beneficio extramurario richiesto (v.Fiorentin, opera cit).
In particolare, emergerebbe una sorta di prevalenza delle esigenze della risocializzazione su quelle delle Vittime in contesti nei quali la presenza di iniziative in favore delle Vittime e, sopratutto, il riconoscimento delle stesse quali “Vittime di mafia” costituisce uno dei più chiari indici di distacco dall’ideologia mafiosa ed uno dei più qualificati presìdi di tutela degli offesi.
Va evidenziato che la Delega Legislativa al Governo con la LD 134/2021, prevede che, ai programmi di giustizia riparativa si accede «sulla base del consenso libero e informato della vittima del reato e dell’autore del reato e della positiva valutazione da parte dell’autorità giudiziaria dell’utilità del programma in relazione ai criteri di accesso definiti ai sensi della lettera a) »in contrasto con le tutele accordate, rispettivamente, all’autore di reato (destinatario degli interventi dell’équipe del carcere e dell’UEPE, ai sensi dell’art. 27, D.P.R. 230/2000), ed alla Vittima, a cui manca la necessaria presa in carico istituzionale per l’attività di informazione ma anche una sua “formazione” in preparazione del percorso ripara tivo.
Notevole è divenuto, anche, il dibattito in corso sul contrasto della Giustizia Riparativa con il modello italiano di Giustizia Penale.
La Dottrina ha, invero, mossomolte edimportantiobbiezionisulpianodella compatibilitàcostituzionalealsistemaitalianodellaGiustizia Riparativa inserita dalla Riforma nelprocessopenale a pieno titolo.
In estrema sintesi, le critiche mosse al provvedimento riguardano gli obiettivi della giustizia riparativa posto che il programma riparativo deve essere «utile» «alla risoluzione delle questioni derivanti dal fatto» che si porrebbero in termini incompatibili con il principio di non colpevolezza allorché dovesse essere inteso come regola di giudizio anche nel merito dei fatti, schiudendo a possibili profili di contrasto la presunzione di non colpevolezza annoverata anche dall’art. 6, com ma 2,della CEDU e dall’art.14,comma 2, del Patto Internazionale sui diritti civili e politici.
Ne risulterebbe, in conseguenza, viziata l’imparzialità del Giudice, atteso che, disponendo l’invio dell’imputato al Centro per la giustizia riparativa prima della condanna, il Giudicante anticiperebbe il convincimento sulla colpevolezza dello stesso, anche in considerazione della mancanza di un rimedio appropriato per ripristinare la situazione di imparzialità e, a tal fine, non essendo applicabile l’istituto della ricusazione, mancandone i presupposti normativi
Invero, la disciplina processuale di cui all’art. 129-bis CPP., inoltre, consentendo al Pubblico Ministero e al Giudice di ”obbligare” l’imputato a tenere un determinato comportamento (come quello di presentarsi a un Centro istituito, che dovrebbe invece rientrare nelle prerogative difensive, nell’esercizio di un diritto costituzionale definito inviolabile in ogni stato e grado del procedimento dall’art. 24,comma 2, Cost.), e, come tale, si porrebbe in aperto contrasto con il principio di parità fra le parti, delineato dall’art. 111, comma 2, Cost. del Giusto Processo.
Va sottolineato, sul punto, che lo stesso D.Lgs.n. 150/2022,ricollega l’esito al «riconoscimento reciproco»ed alla «possibilità di ricostruire i legami tra i partecipanti», e che gli scopi del procedimento sono diretti «al riconoscimento della vittima del reato, la responsabilizzazione della persona indicata come autore dell'offesa»(v.art.43,comma 2), concetti che sembrano sottendere proprio un pieno accertamento di responsabilità.
Proprio per questo, alcuni Ordinamenti europei (come ad es. quello della Spagna, con la Ley 4/2015) prevedono espressamente, tra i requisiti per lo svolgimento del programma riparativo, che l’imputato abbia riconosciuto i fatti essenziali dai quali dipende la sua responsabilità penale.
Ulteriore elemento critico è quello correlato al ruolo dell’Avvocato nel’ambito del nuovo Istituto processuale.
È evidente, infatti, che gli Avvocati possono svolgere una funzione di impulso fondamentale per il successo della giustizia riparativa, ma la disciplina attuale, finisce, tuttavia, per attribuire al difensore un ruolo del tutto marginale.
Sebbene ad esso sia affidato l’atto di impulso, ossia la richiesta da sottoporre al Giudice, nelle fasi successive viene estromesso dalla mediazione e può “rientrare” assistendo il cliente nella fase dell’acquisizione dell’esito finale.
Sarebbe, quindi, necessaria una modifica della norma per assicurare la presenza dei difensori per l’autore del reato e della persona offesa .
La scelta della complementarietà del procedimento comporta dei problemi anche per quanto riguarda le prerogative della Vittima.
Sul punto va ricordato che la Direttiva 2012/29/UE che, all’art. 22,3 comma, in materia di tutela della Vittima, stabilisce che debba essere rivolta particolare attenzione « alle vittime che hanno subito un notevole danno a motivo della gravità del reato, alle vittime di reati motivati da pregiudizio o discriminazione che potrebbero essere correlati in particolare alle loro caratteristiche personali, alle vittime che si trovano particolarmente esposte per la loro relazione e dipendenza nei confronti dell’autore del reato.
In tal senso, sono oggetto di debita considerazione le vittime del terrorismo, della criminalità organizzata, della tratta di esseri umani, della violenza di genere, della violenza nelle relazioni strette, della violenza o dello sfruttamento sessuale o dei reati basati sull’odio e le vittime con disabilità».
La Riforma, ispirata alla Direttiva Europea n.29 del 2012,incentrata sui diritti delle Vittime durante il processo, e la Raccomandazione del 2018,sempre in tema di riconoscimento del reato e delle sofferenze arrecate alla Vittima, in realtà, dal punto di vista processuale, sembra offrire più vantaggi all’autore di reato che alla sua vittima e questo comporta il rischio che si presti attenzione all’imputato/ condannato divenendo solo uno strumento per mitigare il trattamento sanzionatorio e favorire l’esecuzione della pena in forme alternative al carcere.
Sul punto, occorre partire dalla considerazione che i bisogni della Vittima possono essere efficacemente tutelati solo se vengono qualificati e definiti come “diritti” dalla legge: diritto a essere informati, assistiti, tutelati e protetti e non solo ad ottenere un risarcimento adeguato.
In questa prospettiva, diviene importante l’assistenza di un legale nel procedimento penale e un adeguato risarcimento alla persona offesa con la sentenza di condanna, benché esso non potrà reintegrare del tutto la perdita subita.
Tuttavia, come afferma la Dottrina (v.Fiorentin, cit) unacosaèlatuteladellavittimanel procedimento altra e ben diversa è la funzione della Giustizia Riparativa.
Dalla citata Direttiva emerge con chiarezza la distinzione tra diritto alla tutela e diritto alla partecipazione al processo penale che prevede anche “specifici servizi di assistenza riservati, gratuiti e operanti nell’interesse della vittima, prima, durante e per un congruo periodo di tempo dopo il procedimento penale”
In questi anni una tale assistenza è rimasta limitata solo ad alcune categorie di offesi (donne e bambini) e ad alcune tipologie di tutela (ad es. benefici economici o previdenziali per le vittime di terrorismo o di criminalità organizzata) mentre non è stata predisposta alcuna strategia complessiva volta ad istituire nel nostro Paese una rete integrata di servizi.
Si lamenta, infatti, che, nella Riforma, mancherebbe, la istituzione di uno spazio di vero ascolto del dolore della Vittima che è uno dei valori fondanti della restorative justice e tale carenza sarebbe riconducibile, in parte, alla confusione tra servizi di giustizia riparativa e i servizi di assistenza alle vittime, benché resi obbligatori per la Direttiva 2012/29/UE e definiti “servizi essenziali”per gli Stati membri in base al Piano strategico della Commissione europea sui diritti delle vittime (2020-2025).
Già nell’ambito degli Stati Generali dell’esecuzione penale, istituiti dal ministro della giustizia nel 2015, il Tavolo 13 in tema di “Giustizia riparativa, mediazione e tutela delle vittime del reato” aveva elaborato una serie di proposte per allineare l’Ordinamento penale italiano alle previsioni della Direttiva 2012/29/UE e, in particolare, per promuovere “l’accesso alla giustizia riparativa in ogni stato e grado del procedimento”.
Il principio dell’accesso alla giustizia riparativa “senza preclusioni in relazione alla fattispecie di reato o alla sua gravità” è stato codificato dalla legge-delega (art. 1 comma 18, lett. c), l. 27 settembre 2021, n. 134) ma non ha trovato pratica attuazione.
La previsione, sicuramente condivisibile sul piano teorico, lascia tuttavia sussistere le criticità correlate alla sua possibile attuazzione atteso che importanti difficoltà applicative possono sorgere nel caso di particolari reati (si pensi ai delitti di mafia e criminalità organizzata, ai crimini sessuali, ai maltrattamenti, allo stalking e così via) per i quali vi è una probabilità alta che si verifichi una vittimizzazione reiterata e/o secondaria.
Con riguardo all’ambito dei c.d. “delitti di relazione”, si verifica spesso una progressione nell’offesa che può passare, a es., dalle aggressioni solo verbali a quella fisica, fino all’omicidio, specie se tali comportamenti maturano nell’ambito familiare, poiché il danno ne può preannunciare altri e più gravi e non si limita solo alla Vittima diretta della condotta delittuosa, estendendosi di frequente al suo ambito parentale.
Per queste tipologie delittuose i percorsi riparativi possano esplicare la massima effettività laddove siano esperiti nelle fasi iniziali della vicenda criminale e con riguardo ai reati prodromici più gravi, assumendo una connotazione (oltre che riparativa) preventiva, laddove nella fase dell’esecuzione penale tale positivo effetto rischia di non realizzarsi affatto e di essere perfino, in alcune situazioni, controproducente.
Per taluni particolari reati connotati dall’offesa sessuale, inoltre, la legge di Ordinamento penitenziario prevede che il condannato sia sottoposto ad una peculiare osservazione intramuraria con l’ausilio dell’esperto criminologo o psicologo per almeno un anno prima di poter accedere ai benefici penitenziari (art. 4-bis, comma 1-quater, ord. penit.).
Occorre, infine, considerare che i reati di aggressione sessuale sono ad alto tasso di recidiva proprio perché il comportamento illecito è espressione della perso nalità dell’autore e, se non s’interviene su questa, non vi può essere alcun risul tato di riduzione di tali comportamenti.
Tali innegabili criticità hanno portato ad un’opposizione molto forte alla possi bilità che la nuova disciplina trovi attuazione per i reati di genere.
In questa prospettiva, si invoca spesso la contrarietà alla giustizia riparativa e ad ogni altra forma di conciliazione sancita dalla Convenzione di Istanbul del Consiglio d’Europa ratificata dall’Italia con la legge n. 77 del 2013 e, più precisa mente, il suo art. 48, che le vieterebbe in presenza di donne vittime di violenza.
È, tuttavia, importante segnalare che, nel testo della Convenzione la l’art. 48 era stato, in un primo momento.formulato nei termini di divieto assoluto, mentre l’art.48,par. 1, rubricato «Prohibition of mandatory alternative dispute resolution processes or sentencing» recita:«1. Parties shall take the necessary legislative or other measures to prohibit mandatory alternative dispute resolution processes, including mediation and conciliation, in relation to all forms of violence covered by the scope of this Convention».
Alla luce du quanto innanzi, appare necessario per il Legislatore valutare l’opportunità di una modifica della normativa introdotta che metta ordine nel disegno legislativo.
Senz’altro, il coinvolgimento dell’Autorità giudiziaria risponde alla preoccupazione di non vanificare l’impegno organizzativo richiesto per la nuova disciplina organica, affidando la sua operatività alla iniziativa, solo eventuale, dell’autore della offesa e della Vittima.
Più convincente appare il proposito del riformatore di offrire alla Vittima una tutela più idonea alla esigenza di ottenere riparazione dell’offesa provocata dal reato benché il Legislatore, che ha inteso garantire l’accesso agli strumenti della riparazione, sancendo, appunto, il diritto illimitato ed incondizionato delle Parti ad avvalersi della giustizia ripartiva, non abbia fornito alcun parametro di riferimento per una bonaria definizione, come innanzi evidenziato.
Farsi garante di questo diritto è il compito affidato alla Autorità giudiziaria, come si ricava dal ruolo sostitutivo della sua iniziativa, sebbene con i limiti innanzi evidenziati.
Delresto, compliceanchelacarenzadiservizidiassistenzaallavittima, pure previsti dalla Direttiva Europea del 2012,l’informativacircalafacoltàdiaccederealprogrammadi Giustiziariparativa, é divenuto un adempimento solo formale e niente di più che un semplice avviso.
In questa prospettiva ed in assenza di una modifica della attuale normativa, non è neppure pensabile che l’Autorità giudiziaria possa farsi carico, con il consenso delle parti, di inviare le stesse al Centro di giustizia riparativa per garantire il diritto di accesso ai programmi riparativi.
Da ultimo, vale la pena aggiungere che appare criticabile anche il procedimento previsto dall’art.129-bis comma 6 CPP, in relazione al momento di chiusura del programma riparativo con particolare riguardo alla valutazione giudiziale dei risultati raggiunti dall’imputato.
In proposito, come suggerisce la proposta avanzata dalle Camere Penali, sarebbe opportuno consentire all’Autorità giudiziaria l’acquisizione della relazione, trasmessa dal mediatore, solo nel solo caso di esito positivo del programma ed evitare la conoscenza del suo fallimento come soluzione preordinata ad “evitare pregiudizi”sul successivo esito del procedimento penale.