Licenziamento disciplinare e l’insussistenza del fatto materiale contestato

La Cassazione con la sentenza n. 12174/2019 interviene sul dibattito giurisprudenziale ritenendo che il requisito dell’insussistenza del fatto sia integrato anche nel caso in cui il fatto nella sua materialita’ sia esistente ma sia irrilevante giuridicamente o non sia imputabile al lavoratore.

Martedi 21 Maggio 2019

Il quadro normativo in cui si innesta la pronunzia della Corte di Cassazione esaminata è estremamente importante per comprendere la portata della stessa. 

Il D.Lgs 23/2015 in attuazione della legge delega n. 183/2014 (c.d. Jobs act) ha limitato fortemente la tutela reintegratoria nel caso di licenziamento per i lavoratori subordinati a tempo indeterminato assunti a partire dal 07 marzo 2015 preferendo una tutela solo indennitaria parametrata sulla anzianità di servizio (c.d. contratto a tutele crescenti). Il Jobs act ha previsto la tutela reintegratoria ancora applicabile, e solo in limitati casi come vedremo, per i datori di lavoro con più di 15 dipendenti  nella stessa unità produttiva, nello stesso Comune o occupa complessivamente più di 60 dipendenti ( il limite dimensionale sarà raggiunto anche nell’ipotesi in cui la soglia minima venga superata dal 07 marzo 2015 e, quindi, anche per i lavoratori licenziati assunti prima del 07 marzo 2015 ma licenziati dal 07 marzo 2015 in cui l’azienda abbia superato il limite minimo dimensionale previsto dalla legge).

Tuttavia vi sono alcuni casi in cui la tutela reintegratoria, pur residuale ormai come si è detto, resta applicabile: licenziamenti discriminatori e/o nulli, licenziamento inefficace, licenziamento intimato del quale in giudizio sia stato accertato in giudizio il difetto di giustificazione “per motivo consistente nella disabilità fisica o psichica del lavoratore” , il licenziamento intimato “ per giustificato motivo soggettivo o per giusta causa in cui sia direttamente dimostrata in giudizio l'insussistenza del fatto materiale contestato al lavoratore, rispetto alla quale resta estranea ogni valutazione circa la sproporzione del licenziamento”.

Quest’ultima fattispecie è prevista dal comma 2 del D. Lgs. 23/2015. L’art. 3 comma 1 e 2 del D. Lgs. N. 23 del 04.03.2015 così recita: “ 1) Salvo quanto disposto dal comma 2, nei casi in cui risulta accertato che non ricorrono gli estremi del licenziamento per giustificato motivo oggettivo o per giustificato motivo soggettivo o giusta causa, il giudice dichiara estinto il rapporto di lavoro alla data del licenziamento e condanna il datore di lavoro al pagamento di un'indennità non assoggettata a contribuzione previdenziale di importo pari a due mensilità dell'ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto per ogni anno di servizio, in misura comunque non inferiore a sei e non superiore a trentasei mensilità (Comma così modificato dall’ art. 3, comma 1, D.L. 12 luglio 2018, n. 87, convertito, con modificazioni, dalla L. 9 agosto 2018, n. 96; La Corte costituzionale, con sentenza 26 settembre-8 novembre 2018, n. 194 (Gazz. Uff. 14 novembre 2018, n. 45 – Prima serie speciale), ha dichiarato, tra l’altro, l’illegittimità costituzionale del presente comma, sia nel testo originario sia nel testo modificato dall’art. 3, comma 1, D.L. 12 luglio 2018, n. 87, convertito, con modificazioni, nella L. 9 agosto 2018, n. 96, limitatamente alle parole «di importo pari a due mensilità dell’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto per ogni anno di servizio).

Esclusivamente nelle ipotesi di licenziamento per giustificato motivo soggettivo o per giusta causa in cui sia direttamente dimostrata in giudizio l'insussistenza del fatto materiale contestato al lavoratore, rispetto alla quale resta estranea ogni valutazione circa la sproporzione del licenziamento, il giudice annulla il licenziamento e condanna il datore di lavoro alla reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro e al pagamento di un'indennità risarcitoria commisurata all'ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto, corrispondente al periodo dal giorno del licenziamento fino a quello dell'effettiva reintegrazione, dedotto quanto il lavoratore abbia percepito per lo svolgimento di altre attività lavorative, nonché quanto avrebbe potuto percepire accettando una congrua offerta di lavoro ai sensi dell'articolo 4, comma 1, lettera c), del decreto legislativo 21 aprile 2000, n. 181, e successive modificazioni. In ogni caso la misura dell'indennità risarcitoria relativa al periodo antecedente alla pronuncia di reintegrazione non può essere superiore a dodici mensilità dell'ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto. Il datore di lavoro è condannato, altresì, al versamento dei contributi previdenziali e assistenziali dal giorno del licenziamento fino a quello dell'effettiva reintegrazione, senza applicazione di sanzioni per omissione contributiva.

Al lavoratore è attribuita la facoltà di cui all'articolo 2, comma 3” (La Corte costituzionale con sentenza 26 settembre - 8 novembre 2018, n. 194 ha dichiarato, fra l’altro, inammissibili le questioni di legittimità costituzionale degli artt. 2, 3, commi 2 e 3, e 4, sollevate, in riferimento agli artt. 3, 4, primo comma, 35, primo comma, 76 e 117, primo comma, della Costituzione - questi ultimi due articoli in relazione all’art. 30 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea (CDFUE), proclamata a Nizza il 7 dicembre 2000 e adattata a Strasburgo il 12 dicembre 2007, alla Convenzione sul licenziamento n. 158 del 1982 (Convenzione sulla cessazione della relazione di lavoro ad iniziativa del datore di lavoro), adottata a Ginevra dalla Conferenza generale dell’Organizzazione internazionale del lavoro (OIL) il 22 giugno 1982, e all’art. 24 della Carta sociale europea, riveduta, con annesso, fatta a Strasburgo il 3 maggio 1996, ratificata e resa esecutiva con la legge 9 febbraio 1999, n. 30 -, dal Tribunale ordinario di Roma, terza sezione lavoro; ha dichiarato, inoltre, inammissibile la questione di legittimità costituzionale dell’art. 3, comma 1, sollevata in riferimento agli artt. 76 e 117, primo comma, Cost., in relazione all’art. 10 della Convenzione OIL n. 158 del 1982 sul licenziamento, dal Tribunale ordinario di Roma, terza sezione lavoro; ha dichiarato, inoltre, non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 3, comma 1, sollevata in riferimento agli artt. 76 e 117, primo comma, Cost., in relazione all’art. 30 CDFUE, dal Tribunale ordinario di Roma, terza sezione lavoro).

La sentenza della Suprema Corte n. 12174 del 08.05.2019 chiarisce, aderendo ad una delle due  teorie presenti in dottrina e giurisprudenza come debba essere interpretato il concetto di insussistenza del fatto materiale accertato in giudizio e che consente al lavoratore licenziato di ottenere la reintegrazione nel posto di lavoro ovvero quella che viene chiamata tutela reale attenuata. Gli Ermellini nella sentenza indicata esaminano le due diverse interpretazioni esistenti in giurisprudenza sul concetto di insussistenza del fatto materiale.

- Una prima teoria ritiene che il fatto materiale debba essere inteso soltanto come riferito alla condotta realizzatasi nella realtà, comprensiva cioè unicamente di azione o omissione, nesso di causalità ed evento. Se il fatto non si è verificato nella realtà fenomenica senza fare assolutamente riferimento all’atteggiamento psicologico del lavoratore o alla rilevanza disciplinare della condotta si potrà fare luogo alla tutela reintegratoria che avendo un carattere eccezionale deve essere circoscritta alla sola assenza degli elementi costitutivi della condotta, come realizzatasi nella realtà.

- L’altra teoria è efficacemente sintetizzata dalla sentenza n. 10019 del 2016 della Corte di Cassazione che ha ritenuto che il fatto materiale "comprende non soltanto i casi in cui il fatto non si sia verificato nella sua materialità, ma anche tutte le ipotesi in cui il fatto, materialmente accaduto, non abbia rilievo disciplinare o quanto al profilo oggettivo ovvero quanto al profilo soggettivo della imputabilità della condotta al dipendente”.   Il fatto seppur materialmente accaduto ma irrilevante dal punto di vista disciplinare o non imputabile al dipendente integra l’ipotesi di cui all’art. 3  comma 2 del Job act e, quindi, dà diritto alla reintegra nel posto di lavoro.

La Corte di Cassazione nella sentenza 12174/2019 concorda pienamente con i fautori della seconda teoria e difatti scrive: “Il medesimo criterio razionale che ha già portato questa Corte a ritenere che "quanto alla tutela reintegratoria”, non è plausibile che il Legislatore, parlando di "insussistenza del fatto contestato", abbia voluto negarla nel caso di fatto sussistente ma privo del carattere di illiceità, ossia non suscettibile di alcuna sanzione" (in termini, ab imo, Cass. n. 20540 del 2015), induce il convincimento, sia pure in presenza di un dato normativo, parzialmente mutato, che la irrilevanza giuridica del fatto, pur materialmente verificatosi, determina la sua insussistenza anche ai fini e per gli effetti previsti dal D.Lgs. n. 23 del 2015, art. 3, comma 2”. 

La Suprema Corte ritiene così di formulare una interpretazione della norma costituzionalmente orientata e difatti ripercorre anche una serie di pronunzie della Corte Costituzionale che hanno sancito il diritto costituzionale del lavoratore a non essere estromesso dal lavoro ingiustamente o irragionevolmente ( “Non va poi trascurato che la Corte Costituzionale, come in ultimo rammentato con la pronuncia n. 194 del 2018 (punto 9.1 del Considerato in diritto), affermò (sentenza n. 45 del 1965, punti 3. e 4. del Considerato in diritto) che il diritto al lavoro, "fondamentale diritto di libertà della persona umana", pur non garantendo "il diritto alla conservazione del lavoro", tuttavia "esige che il legislatore (...) adegui (...) la disciplina dei rapporti di lavoro a tempo indeterminato al fine ultimo di assicurare a tutti la continuità del lavoro, e circondi di doverose garanzie (...) e di opportuni temperamenti i casi in cui si renda necessario far luogo a licenziamenti". Questa esortazione, come è noto, fu accolta con l'approvazione della L. n. 604 del 1966, che sancì, all'art. 1, il principio della necessaria giustificazione del licenziamento, da considerarsi illegittimo se non sorretto da una "giusta causa" o da un "giustificato motivo".Il Giudice delle leggi ha in seguito affermato il "diritto (garantito dall'art. 4 Cost.) a non essere estromesso dal lavoro ingiustamente o irragionevolmente" (sentenza n. 60 del 1991, punto 9. del Considerato in diritto) e ha poi ribadito la "garanzia costituzionale (del) diritto di non subire un licenziamento arbitrario" (sentenza n. 541 del 2000, punto 2. del Considerato in diritto e ordinanza n. 56 del 2006); in altra pronuncia, la Corte Costituzionale ha richiamato la "L. 9 febbraio 1999, n. 30, recante "Ratifica ed esecuzione della Carta sociale Europea, riveduta, con annesso, fatta a Strasburgo il 3 maggio 1996" per contenere " detta Carta, entrata in vigore il 1 settembre 1999, (...) disposizioni volte a circondare di specifiche garanzie la posizione dei prestatori di lavoro contro i licenziamenti, prevedendo, in particolare (art. 24), l'impegno delle parti contraenti a riconoscere il diritto dei lavoratori a non essere licenziati senza un valido motivo" (sentenza nr 46 del 2000, punto 3., ultima parte, del Considerando in diritto) ed ha, inoltre, affermato che "la materia dei licenziamenti individuali è oggi regolata, in presenza degli artt. 4 e 35 Cost., in base al principio della necessaria giustificazione del recesso" (sentenza n. 41 del 2003, punto 2.1. del Considerato in diritto” in Cass. 12174/2019).

Pertanto i giudici della Cassazione concludono esprimendo il seguente principio di diritto: “Ai fini della pronuncia di cui al D.Lgs. n. 23 del 2015, art. 3, comma 2, l'insussistenza del fatto materiale contestato al lavoratore, rispetto alla quale resta estranea ogni valutazione circa la sproporzione del licenziamento, comprende non soltanto i casi in cui il fatto non si sia verificato nella sua materialità, ma anche tutte le ipotesi in cui il fatto, materialmente accaduto, non abbia rilievo disciplinare".

La sanzione principale per il datore di lavoro, trattandosi di azienda con più di 15 dipendenti in questo caso, come si è detto, è quella della reintegra. Il Giudice del Lavoro quando in un giudizio per un licenziamento disciplinare viene provata l’insussistenza del fatto materiale deve annullare il licenziamento e condannare il datore di lavoro alla reintegrazione del lavoratore subordinato a tempo indeterminato nonché al pagamento di una indennità di risarcitoria non superiore a 12 mensilità dell’ultima retribuzione di rifermento per il calcolo del TFR (non più la retribuzione globale di fatto) diminuita dell’aliunde perceptum e dell’aliunde percipiendi e al versamento dei contributi previdenziali ed assistenziali dal giorno del licenziamento fino a quello dell’effettiva reintegrazione senza applicazione di sanzioni per l’omissione contributiva.

Il c.d. “Decreto Dignità” (D.L. n.87/18 – Legge 96/2018) non ha modificato la normativa in questione; la sentenza della Corte Costituzionale n. 194/2018 è intervenuta, invece, sul criterio di determinazione dell’indennizzo non modificando, quindi, quello oggetto del presente scritto. Il rito applicabile per i lavoratori assunti in tempo di Jobs act si ricorda è quello ordinario e non più il rito Fornero.     

Allegato:

Corte di Cassazione|Sezione L|Civile|Sentenza 8 MAGGIO 2019 n. 12174

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