Il diritto alla traduzione degli atti

La figura professionale dell’interprete forense in Italia, le motivazioni della sua presenza nell’ambito di un procedimento penale, le leggi che regolamentano la sua nomina e le modalità di svolgimento dell’ufficio ed infine la peculiarità del suo ruolo sono divenute essenziali a causa dell’accresciuta presenza degli stranieri che devono affrontare un giudizio penale in Italia.

Mercoledi 10 Dicembre 2025

Nell’ambito del procedimento penale italiano, l’Autorità procedente nomina un interprete, ai sensi dell’art. 111 della Costituzione Italiana e degli artt. 143 – 147 del Codice di procedura penale, qualora le parti coinvolte non conoscano la lingua ufficiale del processo (che, in base all’art. 109 c.p.p., è l’italiano), o qualora non la conoscano a sufficienza per affrontare adeguatamente la dinamica processuale.

Sebbene siano ormai riconosciuti questi sani principi nelle Aule di Giustizia, emergono, a volte, difficoltà di applicazione che contribuiscono ad allungare la durata dei processi in corso.

Ne è riprova una recente sentenza delle SS UU che sono dovute intervenire sull’obbligo di traduzione della sentenza e dell’atto di citazione in appello per un imputato straniero alloglotta.

Con Ordinanza n. 9900/2025 la Seconda Sezione Penale della Suprema Corte aveva rimesso alle Sezioni Unite la decisione delle seguenti questioni di diritto:

  1. se il decreto di citazione per il giudizio di appello debba essere tradotto in una lingua nota all’imputato che non conosca la lingua italiana;

  2. se la sentenza debba essere tradotta in una lingua nota all’imputato che non conosca la lingua italiana;

  3. se la mancata traduzione del decreto di citazione per il giudizio di appello e della sentenza in una lingua nota all’imputato che non conosca la lingua italiana integrino una nullità generale a regime intermedio.

Decidendo sulle rilevanti questioni, le SS UU, con la sentenza del 26 novembre 2025 n. 38306 (v.in calce) hanno sancito il diritto dell’imputato alloglotta alla traduzione della sentenza e della citazione in appello sulla base dei seguenti principi di diritto:

  1. La mancata traduzione del decreto di citazione per il giudizio d’appello in una lingua nota all’imputato che non conosca la lingua italiana comporta la nullità generale a regime intermedio dello stesso ove riguardante le indicazioni di cui al combinato disposto degli artt. 601, comma 6, e 429, comma 1, lett. f), cod. proc. pen.

  2. La mancata traduzione della sentenza in una lingua nota all’imputato che non conosca la lingua italiana comporta la nullità generale a regime intermedio della “sentenza-documento” con conseguente rinvio al Giudice del grado precedente per la traduzione stessa.

In conseguenza, secondo i due principi di diritto:

- l’omessa traduzione della sentenza di primo grado all’imputato alloglotta che non comprende la lingua italiana, integra una nullità generale a regime intermedio, ai sensi dell’art. 178, comma 1, lett. c), cod. proc. pen.;

- l’omessa traduzione del decreto di citazione in appello all’imputato alloglotta che non comprende la lingua italiana integra una nullità di ordine generale a regime intermedio, ove riguardante l’avvertimento all’imputato che non comparendo sarà giudicato in assenza, ovvero se manca o è insufficiente l’indicazione di uno dei requisiti previsti dall’art. 429, comma 1, lett. f), cod. proc. pen.

  • Il caso all’origine della decisione

Con sentenza pronunciata dal GUP, all’esito di un giudizio abbreviato, due imputati venivano condannati alla pena di anni due e mesi otto di reclusione ed € 600,00 di multa ciascuno per avere concorso nel delitto di rapina e di lesioni personali.

La sentenza dava atto della necessità di uno degli imputati di avvalersi di un interprete di lingua inglese ed, in effetti, nel verbale di udienza ne venina attestata la presenza anche al momento della lettura del dispositivo.

Avverso la sentenza, entrambi gli imputati proponevano appello ma la Corte adita respingeva la richiesta formulata in sede di conclusioni scritte dal difensore dell’imputato straniero alloglotta, diretta a dichiarare la nullità della sentenza di primo grado e del decreto di citazione in appello per l’omessa traduzione di tali atti in una lingua conosciuta dall’imputato.

La Corte, inoltre, motivava il rigetto atteso che la sentenza di primo grado era stata tradotta dall’interprete in udienza e che nessuna richiesta di traduzione era stata avanzata dall’imputato che, tra l’altro, era stato ritenuto in grado di comprendere la lingua italiana.

In aggiunta, il Collegio riteneva che, in ogni caso, alcun pregiudizio era stato indicato dal difensore in ordine alla completa esplicazione del diritto di difesa atteso che l’appello era stato presentato dal difensore senza richiedere la traduzione della sentenza e che l’imputato fosse stato reso edotto del contenuto della sentenza di primo grado, avendo delegato il difensore alla presentazione dei motivi d’impugnazione.

Avverso la sentenza di secondo grado presentavano ricorso per cassazione i difensori degli imputati; per la violazione ed erronea applicazione degli artt. 143,178 co. 1 lett. C) e 180 c.p.p., nonché del D, Lgs 4/3/2014 n.32 con riferimento all’omessa traduzione della sentenza di primo grado e del decreto di citazione in appello.

Secondo i difensori, la decisione della Corte di appello di non accogliere l’eccezione di nullità, sollevata con i motivi nuovi e riproposta in sede di conclusioni scritte, con riferimento alla sentenza di primo grado e al decreto di citazione in appello, era stata emessa in violazione della normativa in tema di traduzione degli atti in favore dell’imputato alloglotta, posta a garanzia dell’effettività dei diritti di difesa e del rispetto del contraddittorio nonché a tutela .della partecipazione consapevole dell’imputato al processo

  • La rimessione della decisione delle SS UU

All’udienza del 14 febbraio 2025 la Seconda Sezione penale, investita della decisione dei ricorsi della difesa, con Ordinanza, n.9900 dell’11 marzo 2025, rimetteva la trattazione alle Sezioni Unite, ai sensi dell’art. 618 co. 1 c.p.p., rilevando l’esistenza di un contrasto giurisprudenziale sulle conseguenze derivanti nei confronti dell’imputato alloglotta che non conosca la lingua italiana dall’omessa traduzione “nella lingua a lui nota” della sentenza e del decreto di citazione per il giudizio di appello.

In effetti la Suprema Corte aveva riscontrato che

  • secondo un primo orientamento, l’obbligo di traduzione riguarda tutti gli atti indicati dal secondo comma dell’art. 143 c.p.p., in quanto è funzionale a garantire all’imputato l’effettività della partecipazione al procedimento, anche in fase di appello, oltre che l’esplicazione della difesa in forma diretta e personale e, quindi, la sua omissione dà luogo ad una nullità di ordine generale a regime intermedio anche per gli atti – come il decreto di citazione a giudizio in appello – di “impulso processuale”.

  • Quanto all’inserimento tra le nullità di ordine generale a regime intermedio, la decisione trova fondamento sulle precedenti sentenze delle Sezioni Unite in tema di mancata traduzione nella lingua dell’imputato alloglotta del decreto di citazione a giudizio (SS UU n. 12 del 31/05/2000, Jakani) e di omessa traduzione dell’ordinanza dki custodia cautelare (SS UU n.15069 del 26/10/2023, Niecko).

  • secondo un diverso orientamento, il decreto in questione, non contenendo, a differenza dal decreto che disponeva il giudizio di primo grado, alcun elemento relativo alla “accusa”, sebbene fosse già nota all’imputato, ma solo l’individuazione dello stesso, del procedimento e della data di trattazione del giudizio di appello, non doveva essere tradotto, in base ai principi sovranazionali in tema di processo equo (art. 6 CEDU) che stabiliscono il diritto dello accusato a essere informato, in una lingua che comprende, dell’accusa contro di lui.

L’Ordinanza di rimessione aveva evidenziato come il contrasto derivi essenzialmente dalla diversa rilevanza assegnata, ai fini dell’effettivo esercizio delle prerogative processuali per l’imputato, alle informazioni contenute nel decreto di citazione a giudizio in appelloche, secondo il primo orientamento, hanno una funzione informativa e propulsiva, la cui conoscenza in lingua nota all’imputato garantisce l’effettività del suo diritto di partecipazione al giudizio di secondo grado e la tutela dei suoi diritti difensivi mentre, secondo l’altro orientamento, la traduzione sarebbe è obbligatoria solo per gli atti che contengono informazioni in ordine alla “accusa”, sicché non riguarderebbero il decreto di citazione a giudizio in appello, che non contiene informazioni decisive per l’esercizio effettivo del diritto di difesa, essendo, comunque, garantito il diritto ad una consapevole partecipazione al giudizio grazie all’assistenza dello interprete in udienza all’uopo nominato.

Inoltre, la Corte rimettente aveva ricordato, che la recente Riforma Cartabia avrebbe arricchito il contenuto informativo del decreto di citazione, nel quale è previsto anche l’avviso in ordine alla possibilità di accesso alla Giustizia Riparativa, paventando che, qualora tale avviso non venga fornito all’imputato nella lingua dallo stesso compresa, si potrebbe profilare un’ulteriore limitazione delle sue prerogative processuali che, secondo la nuova normativa generano benefici ai fini della pena.

La stessa Ordinanza aveva segnalato che anche le conseguenze derivanti dalla omessa traduzione della sentenza emessa in sede di giudizio di cognizione di merito avevano generato orientamenti interpretativi divergenti, nonostante un recente intervento delle stesse Sezioni Unite (v.sent. n.15069 del 26/10/2023, dep. 2024, Niecko, cit.) con il quale, in ordine ad un analogo contrasto riguardante il diritto alla traduzione della Ordinanza di custodia cautelare emessa nei confronti di un imputato o indagato alloglotta, le SS UU hanno affermato che l’inadempimento all’obbligo di traduzione integra un vizio del provvedimento, qualificabile come nullità generale a regime intermedio, sottoposta agli ordinari termini di deducibilità e decadenza.

Invero, le SS UU erano pervenute alla decisione citata sulla base del diritto alla traduzione, sancito nella sentenza n. 10/1993 della Consulta, secondo la quale l’obbligo di traduzione trova il suo fondamento nell’art. 24, secondo comma, della Costituzione che assicura la difesa come “diritto inviolabile in ogni stato e grado del procedimento, essendo un diritto soggettivo perfetto direttamente azionabile dallo stesso imputato o dall’indagato alloglotta”.

  • La decisione delle SS UU

Alla luce di tale premessa interpretativa e, quindi, dalla necessità di assicurare la più ampia tutela all’obbligo di traduzione degli atti in una lingua nota all’imputato o all’indagato alloglotta, le Sezioni Unite hanno ritenuto di aderire all’orientamento giurisprudenziale secondo cui “le ipotesi di mancata o tardiva traduzione dei provvedimenti che dispongono una misura cautelare personale nei confronti di un cittadino straniero che non conosce la lingua italiana concretizzano un vizio dell’atto”.

La traduzione dell’ordinanza cautelare personale costituisce, infatti, per il soggetto alloglotta, la condizione preliminare per l’esercizio dei diritti difensivi e per la necessaria comprensione dei motivi per i quali è intervenuta la privazione della libertà personale, assicurandogli così “una garanzia essenziale al godimento di un diritto fondamentale di difesa…” come già sancvito dalla sentenza della Corte delle Leggi n. 10/1993, innanzi citata.

Invero, anche secondo la sentenza delle SS UU “Niecko” lo stesso codice di rito individua la sanzione derivante dall’omessa traduzione di tale atto, attraverso il richiamo dell’art. 143 c.p.p. con l’art. 292 co. 2 c.p.p. laddove quest’ultima norma prescrive, a pena di nullità, il contenuto “essenziale” dell’ordinanza cautelare, funzionale (così le lettere b e c) all’esercizio del diritto di difesa da parte del soggetto sottoposto a una misura cautelare privo della traduzione.

Alla luce di questi principi – enunciati con riferimento all’art. 111, econdo comma, della Cost. – va vagliata anche la ragionevolezza di un orientamento giurisprudenziale ed alla sua incidenza sui tempi di definizione del processo.

  • La ragionevole durata del processo

Invero, la decisione delle SS UU si sofferma sugli effetti della traduzione degli atti sulla durata del processo e sul diritto di difesa dell’imputato alloglotta.

Con una recente sentenza, la n.116/2023, la Consulta ha sancito che la ragionevole durata del processo “è oggetto, oltre che di un interesse collettivo, di un diritto di tutte le parti, costituzionalmente tutelato non meno di quello ad un giudizio equo e imparziale” (v.anche sentenza. n. 78 del 2002, punto 3 del Considerato in diritto).

Sul punto va rilevato che costituisce un principio pacifico che il diritto di difesa non può essere giammai sacrificato dal principio di ragionevole durata del processo, in quanto ciò che rileva è esclusivamente la durata del “giusto” processo, quale delineato proprio dall’art. 111 Cost. (tra le tante, Corte Cost. sent. n.11 del 2022).

Pertanto rientra nei doveri del Giudice individuare all’interno del sistema processuale il rimedio che sia conforme al modello costituzionale, che esige una piena tutela del principio del contraddittorio e del diritto di difesa, senza tuttavia imporre un sacrificio non necessario e dunque irragionevole alla durata del processo.

In tale direzione, il legislatore ha stabilito che la traduzione della sentenza avvenga “entro un termine congruo tale da consentire l’esercizio dei diritti e della facoltà della difesa”.

In ordine alla esegesi che individua nella nullità la sanzione della sentenza non tradotta, va osservato quanto segue.

Innanzitutto occorre ribadire che l’obbligo di tradurre l’atto processuale non insorge per il solo fatto che l’imputato non sia un cittadino italiano, ma necessita dell’accertamento che lo stesso non conosca la lingua italiana, come, da tempo, pacificamente affermato dalla giurisprudenza europea (per tutte, Corte EDU, Grande Camera,18/10/2006, Hermi C. Italia, par. 71), da quella costituzionale e di legittimità (v. Corte Cost. n. 10 del 1993 e Sez. Un., n. 12 del 31/05/2000, Jakani).

Nel caso della sentenza, il Giudice, quando la emette, ha già potuto verificare che l’imputato parli o meno la lingua italiana e la comprenda, avendo, se presente al giudizio, provveduto alla nomina di un interprete.

Quindi l’obbligo di traduzione scritta della sentenza viene ad emergere prima della fase decisoria e, come tale, va riferito all’atto comprensivo non solo della decisione, che si esprime con il dispositivo, ma anche con la motivazione della stessa in cui la comprensione appare, in questi casi, più che necessaria all’imputato alloglotta.

In conseguenza, l’art. 143 co. 2 c.p.p., nel prevedere la necessaria traduzione delle “sentenze”, mira ad assicurare la partecipazione personale, attiva e consapevole, al procedimento dell’imputato, rendendo in tal modo effettive le sue prerogative difensive attraverso la piena comprensione del significato di tali atti e delle acccuse allo stesso rivolte.

La traduzione costituisce, quindi, per l’imputato che non comprende la lingua italiana il necessario strumento per un concreto ed effettivo esercizio del proprio diritto alla difesa, garantito dall’art. 24 co. 2 Cost.

Essenziale per l’imputato è non solo comprendere il significato della decisione, ma anche delle ragioni su cui la decisione è fondata, al fine di poter valutare, personalmente e consapevolmente, se e come esercitare il diritto di impugnazione.

La nullità derivante dalla omessa traduzione della sentenza va qualificata come nullità generale a regime intermedio poiché la violazione coinvolge il diritto di difesa dell’imputato, pregiudicando la “partecipazione attiva e cosciente” del reale protagonista della vicenda processuale, al quale deve garantirsi l’effettivo esercizio dei diritti e delle facoltà di cui lo stesso è titolare.

  • L’intervento della Unione Europea

L’Unione Europea ha da tempo avviato una campagna di sensibilizzazione dei Paesi Europei per estendere le garanzie previste dalle norme emanate ai procedimenti penali che vedano parte gli stranieri sulla base alla acquisizione della piena conoscenza degli atti processuali e tale necessità deriva proprio dai nuovi flussi Migratori n Europa di cittadini, provenienti da varie parti del Mondo, e al consistente aumento dei reati ad opera dei cittadini neo-residenti ovvero delle Vittime degli i stessi reati a vario titolo.

Per comprendere la portata dell’’intervento legislativo europeo sul tema non si può prescindere dalle garanzie riconosciute e contemplate dagli artt. 5, par. 2 e 6, par. 3, lett. a) CEDU.

La prima norma richiamata accorda al soggetto ristretto il diritto ad essere informato al più presto e in una lingua che comprende dei motivi dell’arresto e di ogni accusa formulata a suo carico. L’art. 6, par. 3 lett. a) CEDU attribuisce, inoltre, all’indagato il diritto ad essere informato nel più breve tempo possibile, in una lingua a lui comprensibile, della natura e dell’accusa elevata a suo carico.

Inoltre, l’art. 14 proibisce le discriminazioni basate su diverse ragioni, tra le quali la lingua.

La stessa esistenza di questi principi sanciti dalla Convenzione Europea impone ai Governi di assicurare un’assistenza linguistica sia all’imputato che alla Vittima di Reato come diritto umano fondamentale.

Tale assistenza, considerata un meta-diritto per garantire la capacità processuale all’imputato, va estesa a tutto il procedimento e deve trovare applicazione a tutti gli atti connessi al processo a cui partecipa lo stesso imputato ovvero la parte offesa per un’efficace comprensione degli atti processuali posti in essere dall’Autorità Giudiziaria.

Una comprensione chiara e precisa degli atti del procedimento e sul contenuto dell’accusa trova riscontro nell’ambito della cooperazione giudiziaria europea, nata per rafforzare la fiducia reciproca tra gli Stati membri e per facilitare il mutuo riconoscimento delle decisioni giudiziarie dei diversi ordinamenti giuridici nazionali.

In questo contesto vanno annoverate le Direttive 2010/64/UE del 20 ottobre 2010, sul diritto all’interpretazione e alla traduzione degli atti nei procedimenti penali, e la Direttiva 2012/13/UE del 22 maggio 2012, sul diritto all’informazione dell’addebito penale (recepito dalla c.d. Riforma Cartabia, come innanzi ricordato NdR)

Mentre, nel primo caso, la Direttiva assicura un’assistenza linguistica adeguata e gratuita a tutti coloro che non parlano o non comprendono la lingua del procedimento nel quale sono indagati o imputati, nel secondo caso, l’intervento europeo è diretto a fornire la conoscenza all’imputato degli estremi dell’addebito, l’informazione sulle prerogative processuali e l’accesso al materiale probatorio raccolto dal pubblico ministero nel corso delle indagini preliminari.

L’intervento legislativo dell’Europa in materia di cooperazione giudiziaria si estende anche alle Vittime di Reato per quanto si dirà infra.

Se, infatti, per un verso la conoscenza sull’accusa e la comprensione delle vie di tutela offerte dall’ordinamento sono strumentali ad un corretto e pieno esercizio del diritto di difesa dell’indagato o dell’imputato, per altri versi, le stesse garanzie vanno assicurate anche per la persona offesa che ha subito un pregiudizio dalla commissione del reato.

In questo modo, con la Direttiva del 2012, il diritto della vittima alla comprensione degli atti del procedimento diviene un diritto funzionale all’esercizio degli altri diritti riconosciuti utili anche per il ristoro dei danni, anche attraverso il ricorso alla Giustizia Riparativa.

In questo senso si spiega la necessaria presenza nei Centri di GR di un interprete e traduttore che collabori con gli addetti e i Mediatori Penali preposti ai programmi riparativi anche con riguardo ai necessari avvisi che precedono la trattativa ed al provvedimento di ammisione delle Parti emanato dal Tribunale.

A tal fine occorre assicurare un’adeguata preparazione tecnica degli addetti, come si dirà oltre, che allo stato manca ancora, così impedendo di fatto l’accesso al nuovo Istituto.

La Direttiva, di recente emanata, fa proprio l’importante principio della Convenzione Europea stabilito all’art.6, par.1, in base al quale “ogni persona ha diritto ad un’equa e pubblica udienza entro un termine ragionevole davanti ad un tribunale indipendente e imparziale, istituito per legge”.

Inoltre, la Corte Europea di Strasburgo, nell’interpretare la norma, ha stabilito che il diritto al risarcimento a carico dello Stato costituisce esso stesso un diritto civile soggettivo e, quindi, ogni istanza connessa deve essere sottoposta ai principi dell’art.6 CEDU (v. sentenza del 27/5/1997 Rolf Gustafson c/ Svezia).

Da ultimo, la Consulta, con una recentissima sentenza (n.88/2018) ha stabilito che la domanda di equa riparazione può essere proposta anche in pendenza di un procedimento penale ad esso presupposto.

Infine, con il Trattato sull’Unione Europea, l’UE si è impegnata a rispettare i diritti fondamentali dell’uomo quali quelli garantiti dalla Convenzione Europea e dalle tradizioni costituzionali comuni degli Stati membri, in quanto principi generali del diritto comunitario (art. F, para grafo 2).

  • Conclusioni

In definitiva, il diritto alla traduzione degli atti ed alla nomina di un interprete/ traduttore è motivata dalla necessità di garantire all’imputato che non capisce e/o non parla l’italiano il diritto di comprendere le accuse contro di lui formulate e capire il procedimento al quale partecipa, nel rispetto del principio costituzionale dell’uguaglianza di ogni individuo davanti alla legge, in virtù del quale nessuno può essere discriminato su basi linguisti che o culturali.

Scopo ultimo di questa tutela, che è gratuita anche per la nomina di un int/traduttore di parte, come stabilito dall’art.143-bis introdotto dalla Riforma Cartabia, è quello di far sì che l’imputato sia presente, vale a dire costituisca una parte attiva del procedimento al quale partecipa e la cui piena comprensione è presupposto fondamentale per l’esercizio di una difesa consapevole, conditio sine qua non per lo svolgimento di un giusto processo.

Il diritto all’interprete nell’ambito di un processo penale costituisce quindi una condizione indispensabile per porre in essere un diritto fondamentale dell’imputato, quello alla difesa e alla «parità fra le parti» come voluto dalla modifica dell’art 111 della Costituzione-

Da tali principi scaturisce la esigenza dell’uttilizzo di una figura specializzata in ambito forense mentre l'attuale panoramica è fatta di interpreti occasionali ossia scelti di volta in volta tra i connazionali degli imputati che conoscono la lingua (se la conoscono!) e possono tradurre nel corso dell’udienza quello che il Giudice, gli Avvocati o il Pm affermano oltre ad avere piena conoscenza, nell’idioma parlato, degli atti processuali posti in essere nei confronti dell’imputato alloglotta

L’esperienza quotidiana delle Aule di giustizia insegna che questi "interpreti" occasionali, nella maggior parte dei casi, non hanno idea di cosa sia un processo penale e non s'intendono di diritto o di procedura penale ed, in conseguenza, hanno enormi difficoltà a tradurre e far comprendere alle Parti i contenuti tecnici delle varie attività processuali.

Appare evidente l’esigenza di formare una figura specifica di interprete e traduttore forense che acquisisca i necessari elementi di conoscenza delle norme procedurali oltre alla conoscenza dei principali reati e della disciplina normativa della immigrazione per poter svolgere efficacemente la propria attività.

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