La configurabilità della diffamazione espressa in forma di satira

Il livello della politica ha subito una tale trasformazione che si fa spesso fatica a distinguere politici reali da personaggi satirici e di mera fantasia, al punto che persino la Cassazione si è dovuta occupare della riscontrabilità del reato di diffamazione in un caso di equiparazione di un funzionario pubblico ad un celebre, forse il più popolare dei protagonisti satirici degli ultimi anni.

Mercoledi 10 Dicembre 2025

Si tratta naturalmente di Cetto La Qualunque, il noto personaggio caricaturale ideato e interpretato da Antonio Albanese, apparso sul piccolo e sul grande schermo a partire dagli anni duemila, raffigurante un politico populista e corrotto, incarnante gli aspetti peggiori del sistema politico italiano, come la mediocrità, l’ignoranza, il sessismo e la corruzione.

Qui di seguito, giusto per introdurre l’argomento in esame, i tratti caratteristici della figura, immaginaria e fantasiosa, di Cetto La Qualunque, così come individuati dalla critica letteraria e cinematografica:

  • Populismo e demagogia: Cetto promette soluzioni facili e impossibili, come la fine della corruzione, meno tasse, vantaggi, guadagni, e privilegi a dir poco improbabili, al fine precipuo di guadagnare consensi.

  • Corruzione e ignoranza: La Qualunque è un personaggio corrotto e ignorante, che disprezza l'istruzione, irride l’ecologia ed il cambiamento climatico e promuove, prediligendola, la mediocrità.

  • Sessismo: Cetto La Qualunque ha una visione fortemente misogina e riduce le donne a oggetti, come esemplificato dalla più iconica e condivisa delle sue promesse elettorali: “cchiù pilu pe' tutti”. Cito, nella materia specifica, uno dei suoi dettami più significativi: “Le donne non devono entrare in politica, è la politica che deve entrare nelle donne”.

Ebbene, con sentenza n.37104 del 13 novembre 2025, la Corte di Cassazione Penale si è trovata a doversi confrontare con la figura in esame ed a pronunciarsi sulla definizione dei rapporti tra reputazione del pubblico amministratore e diritto di critica politica esercitato in forma satirica.

IL FATTO

La vicenda, per certi versi compatibile con la trama di un film del nominato Autore, si snoda in un piccolo paese in provincia de L’Aquila durante l’emergenza pandemica, periodo nel quale le regole, soprattutto all’inizio, in particolare quelle sugli spostamenti, non erano ben chiare né, soprattutto, particolarmente apprezzate.

Lì un soggetto, irritato all’esito di un controllo domiciliare presso la propria residenza, ritenuto effettuato in assenza di disposizioni normative certe e consolidate, e quindi percepito come attuato con eccesso di zelo da parte del Primo Cittadino, inviava al Comune, nella persona del Sindaco, qualificandolo col nominativo di Cetto La Qualunque, una mail dal seguente contenuto: “.. all’attenzione del Signor -omissis- si prega di volermi comunicare, perché vengano rilasciati permessi di transumazione con la motivazione di dover dar da mangiare a due galline, e non lo si possa ottenere per i medicinali salva vita, anticipatamente augurandoci buon lavoro, ringrazio...”.

In relazione all’appellativo rivolto al Sindaco, l’imputato veniva condannato per il delitto di diffamazione, per la qual cosa proponeva ricorso in Cassazione.

LA DECISIONE

Il ricorso è stato ritenuto fondato.

Il punto cruciale, come sempre accuratamente analizzato e risolto dai Giudici di Piazza Cavour, è stato quello di stabilire se nell’appellativo rivolto al Sindaco, con il riferimento al famoso personaggio caricaturale, interprete del malaffare politico e mafioso, avido e corrotto, avesse potuto o meno configurarsi un’offesa alla reputazione dello stesso ovvero, una volta risolto in senso affermativo il primo quesito, se la condotta dell’imputato avesse potuto ritenersi scriminata in quanto riconducibile all’esercizio del diritto di critica, sotto forma di satira politica.

Il percorso logico adottato dalla Cassazione è stato come sempre puntuale ed efficace, portando alla conclusione che l'espressione offensiva e diffamante deve essere necessariamente analizzata nell’ambito del contesto storico e culturale del momento.

Nello specifico la Corte ha richiamato il principio, consolidato nella giurisprudenza di legittimità, secondo cui in tema di diffamazione, la reputazione non si identifica con la considerazione che ciascuno ha di sé o con il semplice amor proprio, ma con il senso della dignità personale in conformità all'opinione del gruppo sociale di riferimento, secondo il particolare contesto storico (cfr. Sez. 5, n. 3247 del 28/02/1995, Rv. 201054).

I giudici di legittimità hanno in particolare osservato che un personaggio satirico è composto da varie sfaccettature, contenuti, accezioni e significati che, inserendosi nel substrato culturale del tempo, si trasforma e modifica con esso, e che l’interpretazione negativa a quello riferita non deve essere considerata automaticamente offensiva, ma solo se, in quel determinato contesto, trasmette un giudizio degradante sulla persona e non sulle sue scelte pubbliche.

Una personalità politica, dal canto suo, chiariscono gli Ermellini, ha certamente diritto a che la sua reputazione sia protetta, anche fuori dall’ambito della sua vita privata, ma gli imperativi di questa protezione devono essere bilanciati con gli interessi della libera discussione delle questioni politiche, e le eccezioni alla libertà di espressione richiedono un’interpretazione stretta.

Inoltre, anche se il diritto alla protezione della reputazione è un diritto che rientra, in quanto elemento della vita privata, nell’articolo 8 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, affinché sia applicabile quest’ultimo articolo l’offesa alla reputazione personale deve raggiungere un certo livello di gravità, ed essere stata arrecata in modo tale da causare un pregiudizio per il godimento personale del diritto al rispetto della vita privata. Questa condizione vale sia per la reputazione sociale in generale che per la reputazione professionale in particolare, tanto che, come ha avuto modo di concludere la Cassazione, la condotta dell’imputato è stata nel caso specifico ritenuta "scriminata" proprio in applicazione dei principi richiamati.

Ebbene, fin dai suoi esordi la figura di Cetto La Qualunque era stata dalla Suprema Corte ritenuta comprendente in sé una pluralità di significati, tutti attributivi di qualità sfavorevoli o di giudizi di disvalore secondo il costume sociale corrente e, dunque, tutti offensivi della reputazione altrui, che da siffatta attribuzione sarebbe vulnerata (cfr., ex plurimis, Cass. Sez. 5, n. 17944 del 07/02/2020), sì da poter giustificare, in conseguenza di ciò, la comparazione a detta figura automaticamente offensiva ed ingiuriosa.

Come sin qui accennato, tuttavia, per l’accertamento della sussistenza del reato de quo non può prescindersi dall’analisi dell’attribuzione offensiva nell’esatto contesto storico in cui quella si è formata.

Nella fattispecie in esame, ha evidenziato il giudice di legittimità, siffatta indagine è del tutto mancata da parte della Corte d’Appello la quale, in estrema sintesi, non ha tenuto nella giusta considerazione il fatto che le iniziative del Sindaco destinatario della mail “infamante”, promulgate per il contenimento dell’emergenza pandemica in atto, potessero essere state criticate in quanto ritenute immotivatamente severe ed inadeguate.

Di qui la conclusione che l’epiteto, senz’altro potenzialmente idoneo a ledere la reputazione del Sindaco, appellandolo come una sorta di qualunquista rigido ed inflessibile, incapace di barcamenarsi in una situazione eccezionale come quella in atto, non solo non è stato contestualizzato nel momento storico, ma neppure letto nel contesto della stessa mail, nella quale si segnalava, appunto, un trattamento discriminatorio nelle limitazioni alla circolazione.

Ne deriva insomma, che non è alla luce della mera evocazione che l’appellativo implica, che l’affermazione di responsabilità dell’imputato può essere mantenuta ferma, essendo stato ritenuto configurabile invece, nel caso in esame, l’esimente del diritto di critica, nella forma della satira.

In questa prospettiva, dovendo assicurare su di un tema di interesse generale il pieno dispiegarsi della libertà di espressione che, ovviamente, non può essere compressa solo in ragione del ruolo politico svolto dalla persona offesa, e dovendo verificare se l’offesa alla reputazione personale del medesimo avesse raggiunto un certo livello di gravità e sia stata arrecata in modo tale da causare un pregiudizio per la reputazione sociale e professionale del Sindaco, la Cassazione ha così definitivamente deciso:

Ritiene il Collegio che a tale conclusione non possa giungersi, in quanto l'appellativo rivolto al Sindaco non appare un immotivato attacco denigratorio, finalizzato a svilirne pubblicamente la figura umana e professionale, risultando, piuttosto, circoscritto a criticarne l'operato tecnico-amministrativo, attraverso l'evocazione di un personaggio notoriamente inesistente, dunque nella forma scherzosa e ironica propria della satira, pur se connotata da un tono sferzante, che integra, come si è detto, l'esercizio del diritto di critica politica”.

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