Con la recentissima sentenza n. 3716 depositata il 2 febbraio 2022, la Terza Sezione della Corte di Cassazione riconosce la possibilità di sottoporre a sequestro preventivo, conseguente alla commissione di reati tributari, beni rientranti nell'attivo del fallimento che nelle more ha colpito la società.
Giovedi 17 Febbraio 2022 |
Il caso
A seguito di contestazione di cui all’art. 10-quater d.lgs. n. 74/2000, il GIP presso Tribunale di Napoli aveva disposto il sequestro di beni presenti nell’attivo del fallimento della società, nel cui interesse erano stati commessi i reati tributari oggetto di imputazione.
Avverso il decreto di sequestro preventivo, il Curatore della società fallita propone istanza di Riesame al Tribunale territorialmente competente, che, in data 6 luglio 2021, conferma il provvedimento del GIP.
Propone ricorso per Cassazione il medesimo Curatore, deducendo violazione di legge in relazione alla possibilità di operare il sequestro preventivo, ex art. 321, comma 2, c.p.p., di beni rientranti nella massa fallimentare.
Osserva il Curatore, a sostegno dell’impugnazione, che la più recente giurisprudenza di legittimità sia orientata nel senso che, una volta intervenuta la dichiarazione di fallimento, il sequestro preventivo dei beni della società finalizzato alla confisca diretta del profitto non può più essere eseguito, mentre può essere eseguito solo quello finalizzato alla confisca per equivalente, sui beni dell’indagato, tant’è che la peculiare natura dell’attivo fallimentare, derivante da tale spossessamento, sarebbe di ostacolo all’applicabilità del D.Lgs. n. 74 del 2000 art. 12-bis che individua, quale limite all’operatività della confisca, l’appartenenza dei beni che costituiscono il profitto o il prezzo del reato, salvo che appartengano a persona estranea al reato.
Nel dettaglio, il sequestro sarebbe impedito in conseguenza dell’avvenuto spossessamento del patrimonio sociale in conseguenza della declaratoria di fallimento della società, che determina che tutto l’attivo rientri nella disponibilità esclusiva dell'attivo fallimentare e dunque della curatela.
Il Tribunale del Riesame di Napoli, invece, aderendo a un diverso orientamento che si era espresso nel senso della possibilità di disporre il sequestro preventivo finalizzato alla confisca diretta in caso di concordato preventivo, aveva confermato il sequestro preventivo disposto dal GIP.
Al riguardo, osserva il Curatore ricorrente che anche siffatto orientamento patrocinato dal Collegio cautelare esclude dalla sottoposizione al sequestro e/o a confisca i beni che debbono essere restituiti al danneggiato e quelli sui quali il terzo abbia acquisito diritti in buona fede.
Il Tribunale del riesame, pur prendendo atto di tale principio, ha ritenuto però che i soggetti insinuati al passivo non possano essere considerati terzi acquirenti in buona fede, ma senza spiegarne il motivo, nonostante la difesa avesse prodotto documentazione dalla quale risultava pacificamente come vi fossero numerosi crediti maturati da lavoratori subordinati che certamente rientravano tra i soggetti terzi estranei ai reati avendo acquisito diritti di credito, da lavoro subordinato, in perfetta buona fede e in epoca antecedente al sequestro penale. Il quale, pertanto, non doveva essere eseguito, violando la par condicio creditorum e ponendosi in aperto contrasto con la finalità evidentemente sanzionatoria, richiamata dalla stessa ordinanza impugnata, perseguita dalla confisca prevista in tema di reati tributari, quale strumento volto a ristabilire l’equilibrio economico alterato dal reato, con la conseguenza che proprio l’evidente finalità sanzionatoria, come si desume dal testo del provvedimento impugnato, sottrarrebbe al Fallimento i beni frutto di attività recuperatorie (e quindi di attività lecite), poste in essere dal curatore al fine di garantire soggetti terzi che avevano maturato crediti legittimi e di buona fede.
La decisione della Suprema Corte
Mette conto evidenziare che il Procuratore Generale aveva concluso per l’accoglimento del ricorso in adesione all’indirizzo interpretativo che nega la possibilità del sequestro disposto dopo la sentenza dichiarativa di fallimento in quanto la stessa determinerebbe lo spossessamento in danno della società dei beni e la necessità di tutela dei creditori e della par condicio.
Ciò nondimeno, osserva la Cassazione come l’unico limite conseguente al dettato dell’art. 12-bis d.lgs. n. 74/2000 sia la appartenenza dei beni sequestrandi a soggetto estraneo al reato.
Inoltre, prosegue la Corte, se è pur vero che il fallimento determina lo spossessamento dei beni è altrettanto innegabile che lascia inalterata la struttura dell’ente fallito in quanto la società continua ad esistere come soggetto giuridico anche suscettibile di sanzioni e dunque non si vede perché non dovrebbe essere privato dei beni che costituiscono il profitto o il prezzo del reato.
Ne discende, secondo la Cassazione, che il sequestro preventivo finalizzato alla confisca può essere applicato anche ad una società fallita, non ostando, a tale interpretazione, il fatto che alcune norme contenute nel Codice della crisi di impresa - prima fra tutte quella che riconosce esplicitamente al Curatore il potere di impugnare le misure cautelari reali – non siano ancora entrate in vigore.
La Corte richiama sul punto una consolidata giurisprudenza di legittimità secondo la quale è consentito utilizzare quale canone ermeneutico una norma contenuta in una legge la cui entrata in vigore sia stata differita.
Alla luce, dunque, anche delle norme contenute nel nuovo Codice della Crisi d’impresa, cui viene riconosciuta valenza interpretativa, la Corte ritiene legittimo il sequestro preventivo finalizzato alla confisca diretta sui beni della procedura fallimentare.