Quando la motivazione per relationem rende illegittima la sentenza di appello

Lunedi 15 Marzo 2021

La sentenza di appello è illegittima se si limita a confermare la motivazione della sentenza di primo grado in modo acritico e senza valutazione alcuna circa l’infondatezza dei motivi di gravame.

Con il suddetto condivisibile principio la Suprema Corte di Cassazione ha confermato il proprio orientamento in tema di motivazione per relationem delle sentenze di secondo grado rispetto a quelle di primo grado (cfr. Cass., sent. n. 20883/19; n. 28139/28; n. 14786/16).

La Corte, con l’ordinanza n. 6397/21, depositata il 9 marzo 2021, ha quindi ammesso che, in linea di principio, una sentenza di Commissione Tributaria Regionale (o, in generale, una sentenza di appello) possa essere motivata per relationem, “purché il giudice del gravame dia conto, sia pur sinteticamente, delle ragioni della conferma in relazione ai motivi di impugnazione ovvero della identità delle questioni prospettate in appello rispetto a quelle già esaminate in primo grado, sicché dalla parte motiva di entrambe le sentenze possa ricavarsi un percorso argomentativo esaustivo e coerente”.

Di contro, il mero richiamo alla motivazione della sentenza di primo grado, anche tramite l’utilizzo di mere formule stereotipate, comporta la nullità della sentenza per carenza assoluta di motivazione.

Nel caso esaminato dalla Cassazione è stato accolto il primo motivo di ricorso in cui si eccepiva la violazione – in relazione all’art. 360, comma 1, n. 4), c.p.c. - dell’art. 132, comma 2, n. 4), c.p.c., giusta il quale la sentenza deve contenere “la concisa esposizione delle ragioni di fatto e di diritto della decisione”. A tal riguardo la Suprema Corte ha più volte specificato (ex multis, Cass., sent. .n. 22232/16) che la motivazione di una sentenza, ancorché graficamente esistente, è da considerarsi meramente apparente – e quindi viziata da error in procedendo - se non è in grado di rendere “percepibile il fondamento della decisione, perchè recante argomentazioni obbiettivamente inidonee a far conoscere il ragionamento seguito dal giudice per la formazione del proprio convincimento, non potendosi lasciare all’interprete il compito di integrarla con le più varie, ipotetiche congetture”.

Il principio ribadito dalla Suprema Corte, ancorché chiaro e condivisibile, è tuttavia spesso di complessa applicazione in quanto necessità di un’attenta analisi ed interpretazione del testo della motivazione della sentenza di appello e di quella di primo grado, ovviamente da leggersi alla luce dei principali atti di causa

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