Obbligo vaccinale e altre cause di sospensione della prestazione lavorativa

Avv. Paola Baglio.

Note alle sentenze della cassazione-sez.lavoro n.1881,1888 e n.2412/2025.

Martedi 3 Giugno 2025

Con le sentenze n.1881 e 1888 del 27 gennaio 2025, nonché con la sentenza n.2412 del 1° febbraio 2025 la Suprema Corte di Cassazione, Sez. Lavoro ha affrontato una questione giuridica nuova inerente alla sospensione di pubblici dipendenti per inadempimento dell’obbligo vaccinale e all’incidenza di altre cause di sospensione della prestazione lavorativa, ancorché insorte in precedenza rispetto a quella correlata alla mancata vaccinazione obbligatoria, concludendo per l’applicazione della normativa emergenziale adottata durante il periodo pandemico.

Tutte le fattispecie esaminate dalla Suprema Corte riguardano personale dipendente di una ASL, a tempo pieno e indeterminato, con funzioni di esercenti la professione sanitaria di Infermiera che – come detto - non si erano sottoposte alla vaccinazione obbligatoria anti COVID 19 (di cui all’art.4 del D.L.44/21 e ss., convertito in legge 28 maggio 2021 n.76), e quindi sono state attinte da provvedimenti di sospensione dal lavoro e dalla retribuzione.

La difesa aziendale, nei precedenti gradi di giudizio, aveva innanzitutto posto in rilievo la ragionevolezza della sospensione (comprendente anche quella dalla corresponsione dello stipendio e di ogni altro emolumento) operante nel caso di specie – prevista da una normativa speciale, emanata per fronteggiare una situazione eccezionale – che implicava il solo diritto alla conservazione del posto di lavoro.

Pertanto, quando irrogata, la sospensione de qua si "sovrappone" a qualunque altro istituto contrattuale che in quel momento è fruito dal dipendente. Conseguentemente, applicando le disposizioni all’epoca vigenti nel senso normativamente orientato, ne discendeva che la ratio (ed effetto) della norma fosse quella di sospendere ogni altro emolumento e trattamento economico a qualunque titolo dovuto, in ragione del “congelamento” di fatto del rapporto sinallagmatico che costituisce la base del vincolo contrattuale prestazionale tra il datore di lavoro e il dipendente.

Diversamente opinando, si giungerebbe alla conclusione che - pur nel contesto di un rapporto di lavoro congelato per libera scelta del dipendente di non sottoporsi alla vaccinazione obbligatoria - il dipendente accederebbe ugualmente agli istituti normativi e contrattuali che connotano quel rapporto (in particolare gli istituti di carattere economico), ma in condizioni di normalità del sinallagma.

La difesa aziendale, a completamento del ragionamento che precede, poneva altresì l’accento, solo per amor di ipotesi, sul fatto che laddove si volesse ritenere operante una scelta di particolari istituti da tutelare in caso della prevista sospensione del rapporto sinallagmatico, il percorso che salvaguardi la corresponsione di emolumenti non risulta in alcun modo suffragato dalla norma da applicare nelle ipotesi in questione che, al contrario, esclude categoricamente la corresponsione della retribuzione o di qualsivoglia altro compenso (art.4, comma 8, D.L. 44/2021 e s.m.i.).

Né le dipendenti avevano presentato all’Azienda (e quindi prodotto in causa) alcuna certificazione attestante che i rispettivi Medici di Medicina Generale – prima della contestata sospensione - avessero mai richiesto il differimento della vaccinazione per condizioni cliniche accertate ed incompatibili con la stessa, indicando le relative controindicazioni.

Di talché discendeva la legittimità e correttezza dell’azione amministrativa posta in essere nelle fattispecie; giacché la normativa de qua sanciva la competenza esclusiva del medico di medicina generale ad attestare, sulla scorta della documentazione che gli veniva fornita dal proprio assistito, l’esonero e/o il differimento dalla vaccinazione.

Malgrado quanto sopra in sintesi esposto, i Giudici di merito – sia di primo che di secondo grado – disattendevano le ragioni dell’Azienda, accogliendo di contro le tesi difensive delle ricorrenti.

La ASL, tuttavia, convinta della ragionevolezza/legittimità della propria azione ha deciso, appunto, di agire per la cassazione delle sentenze, articolando due motivi di ricorso.

In sintesi, la questione giuridica sottesa ai ricorsi riposa sulla scelta delle norme/istituto giuridico da applicare nel caso di specie e, per l’effetto, del trattamento economico da corrispondere alle dipendenti; laddove la mancata erogazione della prestazione lavorativa è stata conseguenza della malattia e/o del congedo parentale delle dipendenti stesse ed anche della mancata effettuazione della vaccinazione per loro obbligatoria, atteso che costoro – quali esercenti la professione sanitaria – erano tenute all’indefettibile effettuazione della vaccinazione anti-Covid oppure a sopportare le conseguenze della propria libera scelta di non vaccinarsi, tra cui la mancata erogazione della retribuzione e di qualsivoglia altro tipo di emolumento.

Più precisamente, col primo motivo di ricorso, veniva censurata l’illegittimità delle varie sentenze di merito per violazione o falsa applicazione di plurime norme di diritto, con specifico riguardo al compito del Giudice di scegliere quale norma/istituto giuridico applicare al caso concreto ed alla risoluzione delle cosiddette antinomie mediante applicazione del principio “lex specialis derogat generali”; mentre col secondo motivo di ricorso veniva censurata l’illegittimità della sentenza per violazione o falsa applicazione di norme con riguardo al principio di priorità della causa legale di sospensione della prestazione lavorativa.

Ebbene la Suprema Corte, ribaltando la giurisprudenza di merito, ha accolto integralmente entrambi i motivi di ricorso, cassato le sentenze impugnate e rigettato la domanda originaria.

Più precisamente, con riguardo al I motivo di ricorso, la Cassazione ha statuito che il legislatore non ha attribuito alcun rilievo a situazioni soggettive del dipendente (ovvero la malattia o il congedo parentale) ed ha esentato dalla vaccinazione esclusivamente coloro che sarebbero stati esposti ad accertato pericolo per la salute, e questa scelta, motivata dalla eccezionalità e temporaneità dell'emergenza sanitaria, è stata ritenuta non irragionevole dalla Corte Costituzionale in plurime pronunce.

Con riguardo, poi, al II motivo di ricorso e quindi al principio della priorità della causa sospensiva della prestazione lavorativa, la Suprema Corte ha ritenuto che “la giurisprudenza richiamata dalla Corte territoriale, invocata dalla controricorrente anche in questa sede, oltre a circoscrivere l'ambito di applicazione del principio della priorità della causa sospensiva alle cause di sospensione con diritto alla retribuzione, è chiara nell'escluderne l'applicazione qualora la causa sopravvenuta sia conseguenza della assoluta impossibilità di rendere la prestazione lavorativa..".

In conclusione, quindi, al di fuori dell’unica esimente prevista dalla legislazione emergenziale, alcuna ragione è (ed è stata) suscettibile di derogare alla vaccinazione obbligatoria, tantomeno ha potuto consentire a chi liberamente sceglieva di non vaccinarsi (scelta peraltro sempre rivedibile, col conseguente ripristino di ogni diritto) di continuare a percepire emolumenti a qualsiasi titolo.

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