Domanda riconvenzionale e mediazione obbligatoria

Commento a Corte di Cassazione, Sezioni Unite, Civile, Sentenza del 7 febbraio 2024, n. 3452,
Avv. Armando Pasqua.

La sentenza in esame fornisce interessanti spunti di riflessione, anche critica, sulla “qualità della vita” della mediazione civile e commerciale in Italia, e in particolare sull’impatto che essa ha sul sistema giustizia nel suo complesso, nonché sul delicato rapporto esistente tra mediazione e processo, un rapporto inevitabilmente influenzato dalla previsione dell’obbligatorio esperimento della procedura conciliativa quale condizione di procedibilità della domanda giudiziale in determinate materie.

Venerdi 29 Novembre 2024

La questione di diritto.

In questa circostanza, è passata al vaglio delle Sezioni Unite la questione di diritto relativa alla sussistenza o meno di un “obbligo di provvedere alla mediazione nel caso di proposizione di una domanda riconvenzionale, ove la mediazione sia stata già ritualmente effettuata, anteriormente alla prima udienza, in relazione alla sola domanda principale”.

Le considerazioni delle Sezioni Unite.

Per rispondere al quesito sollevato con ordinanza di rinvio pregiudiziale ex art. 363-bis c.p.c. dal Tribunale di Roma, chiamato a risolvere una controversia in materia locatizia – sottoposta all’obbligatorio esperimento della procedura di mediazione ex art. 5, D.Lgs. 28/2010 –, la Corte di Cassazione prende le mosse dalla distinzione fornita dagli interpreti tra domanda riconvenzionale c.d. “non eccentrica” e domanda riconvenzionale c.d. “eccentrica”.

La prima tipologia viene interpretata dal diritto vivente come quella domanda collegata all’oggetto della lite, in cui esiste necessariamente un “collegamento oggettivo con l’oggetto” che appartiene al giudizio, un collegamento tra domanda principale e riconvenzionale che giustifichi e renda opportuno il simultaneus processus.

La seconda tipologia di domanda riconvenzionale, per difetto, viene definita come quella “in nessun modo «obiettivamente ricollegabile all’oggetto» della causa”.

Tuttavia, sottolinea la Corte, la distinzione appena fornita non è sempre agevole all’atto pratico, risultando difficile stabilire, nei casi in concreto, se sussiste o meno un collegamento oggettivo tra domande, a tal punto da costituire ulteriore motivo di attrito e contrasto tra le parti in giudizio; inoltre, aggiungono i Giudici di Piazza Cavour, non vi è riscontro di tale differenziazione nell’ordinamento, rendendo ancora più complesso addivenire ad una soluzione unitaria sul punto.

Una cultura della risoluzione alternativa delle controversie.

Seguendo l’ordine argomentativo degli Ermellini, viene svolta una breve disamina della disciplina dettata dal D.Lgs. 28/2010 in tema di mediazione obbligatoria, ricordando che essa “si inserisce in un contesto riformatore che esprime la ratio di costituire «una reale spinta deflattiva e contribuire alla diffusione della cultura della risoluzione alternativa delle controversie» (così la relazione illustrativa al D.Lgs. n. 28 del 2010)”.

Ed è proprio una questione culturale quella posta dal dirompente effetto della mediazione nell’ordinamento giuridico italiano, specialmente in relazione all’obbligatorio esperimento della procedura conciliativa come condizione di procedibilità.

Infatti, si può affermare che, senza la previsione legislativa della mediazione obbligatoria (colpita nel 2012 dalla declaratoria di incostituzionalità dalla Consulta per eccesso di delega e che, dopo la reintroduzione nel nostro ordinamento ad opera del Decreto-Legge 21 giugno 2013, n. 69 convertito con modificazioni dalla L. 9 agosto 2013, n. 98, in caso di mancato assolvimento comporta l’improcedibilità della domanda giudiziale), la mediazione oggi non avrebbe questo meritato successo, confermato dalle statistiche fornite periodicamente dal Ministero della Giustizia sul contenzioso civile. Eppure, chi (una parte dell’avvocatura, in primis) si è mostrato inizialmente più restio nei confronti dell’ADR più importante per efficacia, oggi, dopo aver toccato con mano i benefici discendenti da un saggio impiego della mediazione, si fa portavoce dell’importanza di tale strumento e, addirittura, crede in esso al punto tale da fornire linfa vitale per i numeri della mediazione facoltativa.

In altre parole, era necessario che gli operatori del diritto si “scontrassero” con la mediazione per poterne apprezzare, a mente lucida, tutti i vantaggi che essa offre.

Anche perché, come ricordano i Giudici delle Sezioni Unite citando la pronuncia n. 77 del 19 aprile 2018 della Corte Costituzionale, la giurisdizione rappresenta una “risorsa” non illimitata e, dunque, da preservare.

In questo contesto si inseriscono le ADR (prima fra tutte, la mediazione) che, proprio nell’ottica di una sempre maggior diffusione della cultura della risoluzione alternativa delle controversie, hanno inciso profondamente anche sullo svolgimento del processo civile; tanto è vero che la riforma intervenuta con il D.Lgs. 149/2022 ha introdotto l’art. 185-bis c.p.c. ove è previsto che “il giudice, fino al momento in cui fissa l'udienza di rimessione della causa in decisione, formula alle parti ove possibile, avuto riguardo alla natura del giudizio, al valore della controversia e all'esistenza di questioni di facile e pronta soluzione di diritto, una proposta transattiva o conciliativa”.

La sentenza in esame richiama stralci di pronunce della Corte Costituzionale (la n. 97 del 18 aprile 2019 e la n. 10 del 20 gennaio 2022) dai quali emerge con chiarezza il ruolo predominante che la mediazione assume nel nostro ordinamento e gli effetti che produce in termini di deflazione.

Risulta, dunque, degna di nota l’affermazione della Cassazione secondo cui “la mediazione, con l’auspicata conciliazione delle controversie, mira a transigere le liti, evitando, in tal modo, che il soggetto debba ottenere soddisfazione attraverso gli organi di giustizia, con elevati costi e tempi, che nocciono alla parte, come al sistema giudiziario nel suo complesso. Il fine, dunque, è l’auspicata non introduzione della causa, risolta preventivamente innanzi all’organo apposito, in via stragiudiziale”.

Domande riconvenzionali c.d. “non eccentriche”.

Venendo alla questione relativa alla sottoposizione o meno delle domande riconvenzionali c.d. “non eccentriche” alla condizione di procedibilità, la Corte statuisce che la risposta deve essere negativa per il seguente motivo: “la mediazione obbligatoria si collega non alla domanda sic et simpliciter, ma al processo, che ormai è pendente, onde, essendo la causa insorta, la funzione dell’istituto viene meno, non avendo avuto l’effetto di prevenzione per la instaurazione del processo: in quanto essa si collega alla causa, non alla domanda come tale, in funzione deflattiva del processo”.

Insomma, la domanda principale, sottoposta a condizione, è già stata “filtrata” dalla mediazione che non ha impedito l’approdo in giudizio; pertanto, risulterebbe eccessivo e contrario alla ratio deflattiva della norma imporre, per ogni ulteriore domanda proposta in giudizio, uno o più successivi tentativi obbligatori di conciliazione, non foss’altro che per l’allungamento, sostiene la Corte, della trattazione della causa “per mesi”.

Domande riconvenzionali c.d. “eccentriche”.

Anche per le riconvenzionali c.d. “eccentriche” la Corte ritiene che non debba trovare applicazione la norma sulla mediazione obbligatoria, oltre che in virtù della già richiamata ratio deflattiva del processo, anche per i principi di certezza del diritto e della ragionevole durata del processo.

La pronuncia in esame si sofferma ampiamente su tali principi fornendo argomentazioni che giustificano l’inapplicabilità della mediazione obbligatoria alle domande riconvenzionali “eccentriche” e che meritano di essere, per sommi capi, riportate.

Il principio di certezza del diritto.

Per dimostrare l’importanza del principio in esame quale “essenziale espressione dello Stato costituzionale di diritto, a fini anche di uguaglianza”, i Giudici di Palazzo Cavour citano numerose pronunce rese in ambito di controversie agrarie dalle quali emerge la tesi secondo cui anche la domanda riconvenzionale da parte del convenuto debba essere preceduta da un tentativo di conciliazione ma solo in presenza di determinate condizioni che vengono puntualmente specificate negli arresti giurisprudenziali richiamati in sentenza.

Ebbene, proprio l’esistenza di tanti distinguo individuati dal citato filone giurisprudenziale, a dire della Cassazione, mette in mostra “l’imbarazzo, percepito dalle stesse decisioni che li propongono, di ritardare il processo con ulteriori oneri”, così da rendere la tesi in parola foriera di eccessiva incertezza del diritto in ragione del fatto che l’adempimento imposto non è conforme al parametro di ragionevolezza.

Da ciò discende l’esigenza di rigettare la tesi elaborata dalle pronunce in materia agraria anche in relazione al giudizio de quo.

Il principio di ragionevole durata del processo.

Vengono passati in rassegna, a sostegno del principio in esame, alcuni limiti imposti dal legislatore e altri dalla Corte Costituzionale.

I limiti imposti dal legislatore sono rappresentati: da tutte quelle previsioni normative che escludono l’ipotesi del concorso di diverse procedure di conciliazione o mediazione obbligatoria o altre condizioni di procedibilità comunque denominate e facendo optare per una alternatività di procedure; dall’esistenza di un termine entro il quale l’improcedibilità della domanda giudiziale debba essere eccepita dal convenuto, a pena di decadenza, o rilevata d’ufficio dal giudice, ovvero non oltre la prima udienza, ai sensi dell’art. 5, comma 2, secondo periodo, D.Lgs. 28/2010; dalla durata massima della procedura di mediazione – prevista all’art. 6, D.Lgs. 28/2010 – contenuta in tre mesi e prorogabile di altri tre previo accordo scritto delle parti (termine, peraltro, non soggetto a sospensione feriale); e infine, dalla disposizione di cui all’art. 7, D.Lgs. 28/2010, rubricato “effetti sulla ragionevole durata del processo”, che si preoccupa espressamente di escludere il periodo necessario all’espletamento della procedura di mediazione, obbligatoria o demandata che sia, dal computo ai fini di cui all’art. 2 della Legge del 24 marzo 2001, n. 89 (c.d. Legge Pinto).

Il diritto di azione.

I limiti imposti dalla Corte Costituzionale a tutela del principio della ragionevole durata del processo si rinvengono in numerose pronunce (tutte richiamate in sentenza) che accolgono con favore l’impiego di soluzioni stragiudiziali che anticipano il ricorso all’autorità giudiziaria senza ledere il diritto di azione sancito dall’art. 24 Cost. che, specifica la Corte di Cassazione citando il Giudice delle Leggi, “non comporta l’assoluta immediatezza del suo esperimento, ben potendo la legge imporre oneri finalizzati a salvaguardare «interessi generali»”. Per cui, in definitiva, “la mediazione non viola il diritto di azione, sancito dalla Costituzione, soltanto laddove risulti idoneo a produrre il risultato vantaggioso del c.d. effetto deflattivo, senza mai divenire tale da provocare un inutile prolungamento dei tempi del giudizio”.

Da questa ricostruzione emerge, secondo gli Ermellini, un bilanciamento di interessi, già compiuto dal legislatore e poi confermato dalla Corte Costituzionale, tra effetto deflattivo, ragionevole durata del processo e divieto di porre inutili ostacoli all’esercizio del diritto di azione, anche in considerazione del fatto che – proprio in relazione al quesito di diritto posto all’attenzione della Corte – si vuole scongiurare il pericolo di potenziali abusi ad opera del convenuto.

Riflessioni conclusive.

Meritano, in conclusione, di essere commentate alcune considerazioni svolte dai Giudici di Piazza Cavour sulla natura della mediazione.

In particolare, vero è che la mediazione obbligatoria svolge un ruolo proficuo solo se non si presti ad eccessi o abusi, ed è altrettanto vero che costituisce, più che accertamento di diritti, un “«contemperamento di interessi», con semplicità di forme e rapidità di trattazione”, ma non può in alcun modo essere ritenuta “una sorta di «esperimento» finalizzato ad un accordo negoziale, che va certamente tentato, nella prospettiva assunta dal legislatore, ma prima di intraprendere la causa in funzione di scongiurare la originaria iscrizione a ruolo, e che non avrebbe senso diluire e prolungare oltre misura”.

Orbene, affermare che la mediazione sia una sorta di esperimento o, se si vuole, di prova o test, quasi si trattasse di un tentativo en passant, equivale a svilire lo strumento conciliativo che più di tutti gli altri (negoziazione e arbitrato, per citare i più noti) in Italia si è dimostrato in grado (dati alla mano) di dare una vera e propria sforbiciata allo strabordante numero di controversie pendenti nei tribunali, l’unico rimedio dotato di quell’efficacia tale da consentire una gestione sapiente di quelle controversie che, per la natura degli interessi in gioco e per le dinamiche interpersonali esistenti tra le parti – successioni e divisioni ereditarie in primis – venivano poste immediatamente all’attenzione dei giudici (prima dell’entrata in vigore della mediazione obbligatoria) e che invece spesso e volentieri trovano una composizione negli incontri di mediazione.

Dunque, non mero “esperimento” ma vero e proprio “metodo” di risoluzione delle controversie.

Affrontare (per le parti e, in particolar modo, per i loro avvocati) e gestire (per il mediatore) una procedura di mediazione non è qualcosa che si improvvisa, allo stesso modo in cui non si improvvisa una causa giudiziaria.

Negoziare gli interessi portati al tavolo di mediazione richiede competenze specifiche che possono essere acquisite solo attraverso una formazione seria ed adeguata, sia per l’avvocato che assiste il cliente in mediazione sia per il mediatore.

Bisogna infatti constatare che una delle cause di maggior insuccesso delle procedure di mediazione (oltre alla pressocché sistematica mancata partecipazione degli istituti di credito, finanziari e assicurativi) è riconducibile ad una limitata preparazione in capo ai soggetti che prendono parte al tentativo di conciliazione.

In altri termini, lo strumento è efficace ma è necessario essere consapevoli delle sue potenzialità e saperlo adoperare correttamente.

Nei sistemi giuridici di matrice anglosassone è maggiormente diffusa e praticata la cultura della risoluzione stragiudiziale delle controversie, il che costituisce non l’unico ma uno dei fattori principali per cui il carico dei giudizi pendenti nei tribunali è assai inferiore rispetto a quello nostrano.

Anche sul ruolo del mediatore la Cassazione si esprime, ritenendo che a lui, in qualità di “terzo preparato ed estraneo alle parti” (a conferma della necessità di una formazione specialistica) spetti il compito di “esortare le parti a mettere ogni profilo «sul tappeto»”.

Venendo infine alle ultime considerazioni scritte in sentenza, i Giudici, compiendo il ragionamento a contrario, sostengono che, se si volesse aderire alla soluzione che propende per sottoporre la domanda riconvenzionale all’obbligo di mediazione, allora, “per coerenza”, si dovrebbe estendere ad ogni altra domanda fatta valere in giudizio, incluse la c.d. reconventio reconventionis, la domanda proposta da un convenuto verso l’altro, oppure da e contro terzi interventori, volontari o su chiamata. Il che genererebbe l’instaurarsi di “tante successive mediazioni non simultanee” e “il processo necessariamente vedrebbe una trattazione disordinata e disarticolata, in attesa dell’esperimento di tanti tentativi di conciliazione stragiudiziali”.

Per cui, in definitiva, secondo la Cassazione, “la mediazione obbligatoria ha la sua ratio nelle dichiarate finalità di favorire la rapida soluzione delle liti e l’utilizzo delle risorse pubbliche giurisdizionali solo ove effettivamente necessario: posta questa finalità, l’istituto non può essere utilizzato in modo disfunzionale rispetto alle predette finalità ed essere trasformato in una ragione di intralcio al buon funzionamento della giustizia”.

In conclusione, si ritiene che la mediazione rappresenti non soltanto uno strumento deflattivo ma un vero e proprio metodo per risolvere in maniera efficace le controversie, specialmente quelle in cui gli interessi personali delle parti meritano di essere posti al centro del conflitto al fine di trovare, auspicabilmente, con l’indispensabile aiuto del mediatore, un accordo negoziato, senza dover attenersi all’applicazione “rigorosa delle norme che regolano la vicenda”, come specifica anche la stessa Corte. Tutto ciò, preservando la mediazione da potenziali abusi ed evitando che diventi motivo di intralcio ai principi di certezza del diritto, di ragionevole durata del processo e del diritto di azione.

È necessario, dunque, adoperarsi per evitare tutte le distorsioni e gli abusi che indebolirebbero la mediazione, e al contempo riconoscere e apprezzare il reale valore aggiunto che essa ha apportato, più di quattordici anni fa, al nostro sistema di “fare giustizia”, e infine darle maggior fiducia; solo in questo modo le si potrà garantire una buona salute e una lunga vita.

Il principio di diritto.

La Corte di Cassazione, pronunciando sul rinvio pregiudiziale disposto dal Tribunale di Roma, ha dunque enunciato il seguente principio di diritto: “la condizione di procedibilità prevista dall’art. 5, D.Lgs. n. 28 del 2010 sussiste per il solo atto introduttivo del giudizio e non per le domande riconvenzionali, fermo restando che al mediatore compete di valutare tutte le istanze e gli interessi delle parti ed al giudice di esperire il tentativo di conciliazione, per l’intero corso del processo e laddove possibile”.

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