Divisione ordinaria e ereditaria e normativa urbanistica: natura accertativa e non dichiarativa

Cassazione Sezioni Unite n. 25021 del 7 ottobre 2019.
Notaio Antonio Galdiero.
Giovedi 31 Ottobre 2019

La prima questione affrontata è rappresentata dal quesito sull’applicabilità della normativa urbanistica (legge 47/1985 e Dpr 380/2001) allo scioglimento delle comunioni -ordinarie ed ereditarie- da attuare attraverso un procedimento giudiziario.

La seconda questione intende risolvere il problema più specifico dell’applicabilità o meno della comminatoria di nullità allo scioglimento della comunione ereditaria relativa ad un edificio abusivo che sia chiesta, in sede di procedura esecutiva immobiliare.

Con la sentenza 25021/2019 le Sezioni Unite sono intervenute su richiesta del Primo Presidente della Cassazione avendo questi rilevato che si tratta di una “questione di massima di particolare importanza”.

L’idea che si propone chi scrive è quella di fare un sunto della sentenza (55 pagine) che consenta di cogliere il contenuto prescrittivo della stessa e le conclusioni di principio raggiunte, con rinvio per il necessario approfondimento al testo integrale, di agilissima lettura, facile intelligibilità e contenente anche una serie di spunti molto interessanti.

La prima questione è rappresentata dal quesito sull’applicabilità della normativa urbanistica (legge 47/1985 e Dpr 380/2001) allo scioglimento delle comunioni da attuare attraverso un procedimento giudiziario. La fattispecie concreta è costituita dalla pretesa illiceità dello scioglimento di una comunione ereditaria perché il fabbricato di cui si chiede la divisione, originariamente costituto dal solo piano terra (edificato prima del 1940), è stato sopraelevato nel periodo compreso tra il 1970 e il 1976 in assenza di concessione edilizia. Secondo i giudici di appello, lo scioglimento della comunione ereditaria rientra a pieno titolo tra gli atti inter vivos e, come tale, deve essere assoggettato alle disposizioni di cui alla L. n. 47 del 1985, artt. 17 e 40, che vietano -comminando la sanzione della nullità- la stipulazione di atti tra vivi aventi per oggetto diritti reali relativi ad edifici (o a loro parti) dai quali non risultino gli estremi della concessione edilizia o della concessione in sanatoria o ai quali non sia allegata copia della domanda di sanatoria … (c.d. “menzioni urbanistiche”).

La seconda questione si pone il problema più specifico dell’applicabilità o meno della comminatoria di nullità allo scioglimento della comunione ereditaria relativa ad un edificio abusivo che sia chiesta, in sede di procedura esecutiva immobiliare stante l’esistenza dell’inciso secondo il quale le norme sopra citate non si applicano agli “atti derivanti da procedure esecutive immobiliari, individuali o concorsuali”. Le due questioni saranno trattate distintamente.

L’ordinanza dalla quale prende spunto la sentenza richiama la giurisprudenza secondo cui la nullità prevista dalla L. n. 47/1985, art. 17 (ora Dpr 380/2001, art. 46) per i negozi aventi ad oggetto immobili privi di concessione edificatoria (compresi quelli di “scioglimento della comunione di diritti reali, relativi ad edifici, o loro parti”) deve ritenersi limitata ai soli atti “tra vivi” e non riguarda gli atti “mortis causa” e quelli non autonomi rispetto ad essi, tra i quali dovrebbe ritenersi compresa la divisione ereditaria quale atto conclusivo della vicenda successoria (Cass., Sez. 2, n. 15133 del 28/11/2001; Cass., Sez. 2, n. 630 del 17/01/2003; Cass., Sez. 2, n. 2313 del 01/02/2010) ed afferma che tale giurisprudenza merita di essere rimeditata alla luce delle critiche avanzate dalla dottrina, sia con riferimento alla inclusione dello scioglimento della comunione ereditaria tra gli atti mortis causa, sia con riferimento alla presupposta efficacia dichiarativa dell’atto divisorio. Innanzitutto, per quanto rileva nella specifica controversia (avuto riguardo alla data di realizzazione dell’ edificio abusivo), si tratta di stabilire se, tra gli atti tra vivi per i quali l’art. 40 L 47/1985 commina la sanzione della nullità al ricorrere delle condizioni ivi previste, debbano ritenersi compresi o meno gli atti di scioglimento delle comunioni (“prima questione di diritto”). Ove la risposta a tale questione fosse positiva (ove cioè debba ritenersi che lo scioglimento delle comunioni sia ricompreso tra gli atti tra vivi per i quali la L. n. 47/1985 commina la sanzione della nullità), si tratterà di risolvere un’altra conseguente questione di diritto: se possano considerarsi atti inter vivos, come tali soggetti alla detta comminatoria di nullità solo gli atti di scioglimento della comunione “ordinaria” o anche quelli di scioglimento della comunione “ereditaria” (“seconda questione di diritto”). La Corte osserva che la normativa urbanistica ha predisposto un complesso sistema sanzionatorio degli abusi edilizi, che si muove su tre direttrici: 1) le sanzioni penali dell’arresto e dell’ammenda nei confronti di chi ha realizzato l’edificio abusivo (Dpr 380/2001, art. 44); 2) le sanzioni amministrative della demolizione dell’edificio abusivo o dell’acquisizione di esso al patrimonio del comune (art. 31 Dpr cit.); 3) le sanzioni civili della non negoziabilità con atti tra vivi dei diritti reali relativi al detto edificio (artt. 17 e 40 Dpr cit.). Tralasciando le sanzioni penali e amministrative si concentra su quelle civilistiche. Osserva che nella sua prima stesura la L. n. 47/985, art. 17, comma 1, ha stabilito, quanto alle sanzioni civili, che “Gli atti tra vivi, sia in forma pubblica, sia in forma privata, aventi per oggetto trasferimento o costituzione o scioglimento della comunione di diritti reali, relativi ad edifici, o loro parti, la cui costruzione è iniziata dopo l’entrata in vigore della presente legge, sono nulli e non possono essere stipulati ove da essi non risultino, per dichiarazione dell’alienante, gli estremi della concessione ad edificare o della concessione in sanatoria rilasciata ai sensi dell’art. 13. Tali disposizioni non si applicano agli atti costitutivi, modificativi o estintivi di diritti reali di garanzia o di servitù”. L’art. 40, comma 2, della medesima legge ha disposto -con riferimento alle costruzioni abusive realizzate prima dell’entrata in vigore della L. n. 47 del 1985- che “Gli atti tra vivi aventi per oggetto diritti reali, esclusi quelli di costituzione, modificazione ed estinzione di diritti di garanzia o di servitù, relativi ad edifici o loro parti, sono nulli e non possono essere rogati se da essi non risultano, per dichiarazione dell’alienante, gli estremi della licenza o della concessione ad edificare o della concessione rilasciata in sanatoria ai sensi dell’art. 31 ovvero se agli stessi non viene allegata la copia per il richiedente della relativa domanda, munita degli estremi dell’avvenuta presentazione, ovvero copia autentica …. Per le opere iniziate anteriormente al 1 settembre 1967, in luogo degli estremi della licenza edilizia può essere prodotta una dichiarazione sostitutiva di atto notorio, rilasciata dal proprietario o altro avente titolo, ai sensi e per gli effetti della L. 4 gennaio 1968, n. 15, art. 4, attestante che l’opera risulti iniziata in data anteriore al 1 settembre 1967”. Successivamente l’art. 17 della L. n. 47/1985, è stato abrogato (a differenza dell’art. 40, che è tuttora vigente) dal Dpr 380/2001, ma è stato sostanzialmente riprodotto dall’art. 46 del medesimo Dpr 380, il cui comma 1 dispone: “Gli atti tra vivi, sia in forma pubblica, sia in forma privata, aventi per oggetto trasferimento o costituzione o scioglimento della comunione di diritti reali, relativi ad edifici, o loro parti, la cui costruzione è iniziata dopo il 17 marzo 1985, sono nulli e non possono essere stipulati ove da essi non risultino, per dichiarazione dell’alienante, gli estremi del permesso di costruire o del permesso in sanatoria. Tali disposizioni non si applicano agli atti costitutivi, modificativi o estintivi di diritti reali di garanzia o di servitù”.

Si tratta di nullità che rappresentano la sanzione per la violazione di norme imperative in materia urbanistico-ambientale, dettate a tutela dell’interesse generale all’ordinato assetto del territorio con la conseguenza che tali nullità sono rilevabili d’ufficio in ogni stato e grado del giudizio. La Corte osserva che dal confronto tra l’art. 46 Dpr 380/2001 e l’art. 40 della L. 47/1985 risulta che soltanto nel primo gli “atti di scioglimento della comunione” sono espressamente contemplati tra quelli colpiti da nullità ove da essi non risultino le menzioni urbanistiche; nel secondo, invece, nessun riferimento espresso vi è agli atti di scioglimento della comunione; questa differente formulazione aveva indotto in passato la Corte ad affermare, che l’art. 40 della L. 47/1985 -a differenza dell’art. 17, comma 1, della stessa legge (ora art. 46 Dpr 380/2001)- non è applicabile agli atti di scioglimento della comunione (Cass., Sez. 2, n. 14764 del 13/07/ 2005); sicchè nessuna comminatoria di nullità esisterebbe per gli atti di scioglimento della comunione di qualsiasi tipo (anche comunione ordinaria) relativa ad edifici abusivi, non sanati, realizzati prima dell’entrata in vigore della L. n. 47 del 1985. Le Sezioni Unite ritengono che vi siano validi argomenti per rivedere tali conclusioni. Infatti, mentre l’art. 46 Dpr 380 (come prima l’art. 17 L. 47) individua gli atti tra vivi aventi ad oggetto diritti reali relativi ad edifici abusivi (o a loro parti), per i quali commina la sanzione della nullità, avendo riguardo al loro effetto giuridico (“trasferimento, costituzione o scioglimento di comunione”), l’art. 40 della L. 47, invece, individua gli atti inter vivos per i quali commina la nullità avendo riguardo solo al loro “oggetto”, richiedendo cioè che si tratti di “atti tra vivi aventi per oggetto diritti reali (...) relativi ad edifici o loro parti”, prescindendo dal loro effetto giuridico. In sostanza, l’art. 40 della L. 47 indica gli atti oggetto della comminatoria di nullità in modo ellittico e sintetico, attraverso l’amplissima formula “atti tra vivi aventi per oggetto diritti reali (...) relativi ad edifici o loro parti”; tale espressione risulta comprensiva di tutti gli atti inter vivos aventi ad oggetto diritti reali relativi ad edifici, qualunque effetto giuridico abbiano, eccettuati solo gli atti espressamente esclusi. Non potrebbe comprendersi, in mancanza di espressa previsione di legge, perché lo scioglimento della comunione di un immobile abusivo e non sanabile debba ritenersi consentito per il solo fatto che il fabbricato sia stato realizzato prima dell’entrata in vigore della L. 47/1985, considerato, peraltro, che le sanzioni amministrative della demolizione dell’edificio abusivo e dell’acquisizione di esso al patrimonio del comune valgono anche per i fabbricati realizzati prima della entrata in vigore della detta legge; tantomeno potrebbe comprendersi perchè dovrebbe essere vietata la compravendita o la costituzione di usufrutto relativamente ad un tale immobile e dovrebbe invece essere consentito lo scioglimento della comunione. In entrambi i casi infatti si è dinanzi ad un immobile edificato illecitamente e non ricondotto a legittimità sul piano amministrativo. La omogeneità delle situazioni non consente, in mancanza di una espressa previsione normativa, di concludere per una diversità di disciplina. Ne discende che l’art. 40 della L. 47/1985 è applicabile anche agli atti di scioglimento della comunione. Restano fuori dal campo di applicazione di tutte le citate norme soltanto gli atti mortis causa e, tra quelli inter vivos, gli atti privi di efficacia traslativa reale (ossia quelli ad effetti meramente obbligatori), gli atti costitutivi, modificativi o estintivi di diritti reali di garanzia o di servitù e -come si vedrà nella seconda parte- gli atti derivanti da procedure esecutive immobiliari individuali o concorsuali (art. 46, comma 5, Dpr 380 e art. 40, commi 5 e 6, legge 47).

La prima questione sottoposta all’esame delle Sezioni Unite viene dunque risolta con l’enunciazione -ai sensi dell’art. 384 c.p.c., comma 1- del seguente principio di diritto: “Gli atti di scioglimento delle comunioni relativi ad edifici, o a loro parti, sono soggetti alla comminatoria della sanzione della nullità prevista dalla L. n. 47 del 1985, art. 40, comma 2, per gli atti tra vivi aventi per oggetto diritti reali relativi ad edifici realizzati prima della entrata in vigore della L. n. 47 del 1985 dai quali non risultino gli estremi della licenza o della concessione ad edificare o della concessione rilasciata in sanatoria ovvero ai quali non sia unita copia della domanda di sanatoria corredata dalla prova del versamento delle prime due rate di oblazione o dichiarazione sostitutiva di atto notorio attestante che la costruzione dell’opera è stata iniziata in data anteriore al 1 settembre 1967”.

Statuito che lo scioglimento della comunione deve ritenersi ricompreso tra gli atti tra vivi per i quali l’art. 40 della L. 47/1985 commina la sanzione della nullità, la Corte passa all’esame della seconda questione.

Si chiede se nel novero degli atti tra vivi, per i quali l’art. 40 L. 47 commina la nullità, possa includersi solo l’atto di scioglimento della comunione ordinaria, dovendo ritenersi l’atto di divisione della comunione ereditaria un negozio assimilabile agli atti mortis causa, ovvero debba includersi anche l’atto di scioglimento della comunione ereditaria, da qualificarsi invece come negozio inter vivos. Al riguardo ricorda un proprio orientamento secondo il quale l’atto di scioglimento della comunione ereditaria sarebbe un negozio assimilabile agli atti mortis causa, come tale sottratto alla disciplina della L. n. 47 del 1985: la divisione ereditaria sarebbe l’atto conclusivo della vicenda successoria quindi anch’essa da qualificare mortis causa e ciò risulterebbe confermato dall’art. 757 c.c., che assegna “efficacia retroattiva” alle attribuzioni scaturenti dall’atto divisionale, essendosi da tale disposizione dedotto che la divisione non ha efficacia traslativa, non è cioè un atto di alienazione, ma ha natura puramente dichiarativa. Osserva quindi che la divisione può essere “contrattuale”, quando è conseguita attraverso l’accordo tra i tutti i partecipanti alla comunione, culminante nella stipulazione di un apposito contratto divisionale (divisio ex contractu); o “giudiziale”, quando è disposta con apposita pronuncia del giudice (divisio ope iudicis). Il negozio divisorio è un contratto plurilaterale, cui devono necessariamente prendere parte tutti i partecipanti alla comunione, anche la divisione giudiziale, come quella contrattuale, esige la partecipazione al giudizio di tutti i compartecipi (litisconsorzio necessario); la legge prevede anche che, qualora i beni ereditari non possano essere divisi in natura, si possa procedere all’attribuzione congiunta (se più coeredi la chiedano) o alla vendita all’incanto con successiva divisione del ricavato (artt. 720 e 722 c.c.). Ciò premesso passa all’esame degli argomenti posti a fondamento della tesi secondo cui l’atto di scioglimento della comunione ereditaria avente ad oggetto un edificio abusivo o parti di esso non sarebbe tra quelli sanzionati con la nullità dal D.P.R. 6 giugno 2001, n. 380, art. 46 e L. 28 febbraio 1985, n. 47, art. 40, pur se da esso non risultino le menzioni urbanistiche. Il primo argomento esaminato è quello secondo cui l’atto di divisione di una comunione ereditaria sarebbe assimilabile agli atti mortis causa ma sul punto conclude che l’atto di scioglimento della comunione ereditaria costituisce invece un negozio inter vivos, così come l’atto di scioglimento della comunione ordinaria. A nulla rileva la differente disciplina dettata per la divisione del testatore in quanto la divisione testamentaria evita la comunione ereditaria e da luogo, piuttosto, ad una successione “individuale” di ciascun singolo erede. Perciò, alla morte del testatore, neppure sorge una comunione tra gli eredi. Parimenti inaccettabile è l’argomento che per affermare la natura mortis causa della divisione ereditaria fa perno sull’efficacia retroattiva della divisione. La tesi che vorrebbe far discendere la natura di atto meramente dichiarativo della divisione dalla sua efficacia retroattiva finisce per confondere l’efficacia “legale” dell’atto, derivante dall’art. 757 c.c., con la natura dell’atto stesso. E’ vero che la legge (art. 757 c.c.) fa retroagire l’efficacia della divisione al momento dell’ apertura della successione; ma tale effetto giuridico non è dichiaratività: è semplice retroattività. E’ il legislatore che, per assicurare continuità tra la posizione giuridica del defunto e quella dell’erede attributario del bene diviso, fa retroagire gli effetti dell’acquisto al momento dell’apertura della successione. Questa retrodatazione prevista dalla legge è, tuttavia, limitata agli “effetti” della divisione ma non incide sulla natura dell’atto, che è e rimane costitutiva. La divisione non ha causa ricognitiva di effetti giuridici già verificatisi, ma -al contrario- ha causa attributiva e distributiva, in quanto ciascun condividente può divenire l’unico titolare di questo o di quel bene ricadente in comunione solo se vi sia stato un procedimento (contrattuale o giudiziale) che abbia determinato, con effetti costitutivi, lo scioglimento di quella comunione. Essa costituisce, pertanto, un atto assimilabile a quelli di natura traslativa, per i quali la L. n. 47/1985 e il D.P.R. n. 380/2001 comminano la sanzione della nullità ove abbiano ad oggetto edifici abusivi o parti di essi. L’art. 46 del Dpr 380/2001 (e, prima l’art. 17 L 47/1985) include espressamente l’atto di scioglimento della comunione avente ad oggetto edifici abusivi (o loro parti) tra gli atti inter vivos colpiti da nullità. E’ dunque la legge che commina espressamente la nullità dell’atto di scioglimento della comunione che abbia ad oggetto edifici abusivi, senza distinguere in alcun modo tra scioglimento della comunione ordinaria e scioglimento della comunione ereditaria. Non vi sono, pertanto, valide ragioni per ritenere che lo scioglimento della comunione ereditaria sia sottratto alla comminatoria di nullità. Ciò è confermato dalla considerazione che il legislatore, quando ha inteso sottrarre le divisioni ereditarie all’ applicazione della normativa dettata in tema di controllo dell’attività urbanistico-edilizia, lo ha detto espressamente. Decisiva è, in tal senso, la previsione del D.P.R. n. 380 del 2001, art. 30 (già L. n. 47 del 1985, art. 18) in materia di lottizzazione abusiva di terreni a scopo edificatorio.

Viene quindi enunciato -ai sensi dell’art. 384 c.p.c., comma 1- il seguente principio di diritto: Gli atti di scioglimento della comunione ereditaria sono soggetti alla comminatoria della sanzione della nullità, prevista dal D.P.R. 6 giugno 2001, n. 380, art. 46, comma 1, (già L. 28 febbraio 1985, n. 47, art. 17) e dalla L. 28 febbraio 1985, n. 47, art. 40, comma 2, per gli atti tra vivi aventi per oggetto diritti reali relativi ad edifici o a loro parti dai quali non risultino gli estremi della licenza o della concessione ad edificare o della concessione rilasciata in sanatoria”. L’ulteriore passaggio tende a stabilire se le conclusioni cui si è pervenuti, relativamente allo scioglimento della comunione ereditaria in generale, abbiano validità anche con riferimento alla divisione “giudiziale”. Le questioni affrontate sono due: - la prima, più generale, attiene all’applicabilità alla divisione giudiziale dell’eredità del medesimo regime che vale per la divisione convenzionale; - la seconda, più specifica, concerne la possibilità di procedere ad una divisione giudiziale parziale dell’asse ereditario, con esclusione dell’edificio abusivo. Con riguardo alla prima questione, ricorda che la Suprema Corte ha già avuto occasione di precisare che la disposizione di cui all’art. 17 L. 47 (ora art. 46 Dpr 380) si applica non solo alle “divisioni volontarie”, ossia a quelle contrattuali, ma anche alle divisioni giudiziali, risultando, in caso contrario, oltremodo agevole per i condividenti, mediante il ricorso al giudice, l’elusione della norma imperativa in questione. Il principio si pone in linea con quanto ormai affermato in tema di esecuzione in forma specifica dell’obbligo di concludere un contratto avente ad oggetto il trasferimento della proprietà di edifici o di loro parti; è ormai principio consolidato che non può essere emanata sentenza di trasferimento coattivo, ai sensi dell’art. 2932 c.c., in assenza di dichiarazione sugli estremi della concessione edilizia, che costituisce requisito richiesto a pena di nullità dalla L. n. 47 del 1985, art. 17 ed integra una condizione dell’azione ex art. 2932 c.c., non potendo tale pronuncia realizzare un effetto maggiore e diverso da quello possibile alle parti nei limiti della loro autonomia negoziale. Sul punto, ribadisce che l’ordinamento giuridico non può consentire che le parti, attraverso il ricorso al giudice, conseguano un effetto giuridico ad esse precluso per via negoziale, così aggirando il complesso sistema di sanzioni posto a tutela dell’ordinato assetto del territorio; nè il giudice potrebbe, da un lato dichiarare la nullità delle divisioni negoziali poste in essere in violazione delle norme urbanistiche, dall’altro, disporre la divisione giudiziale dei fabbricati abusivi. Neppure il giudice può disporre lo scioglimento di una comunione (ordinaria o ereditaria) avente ad oggetto fabbricati, senza osservare le prescrizioni del Dpr 380 o dalla L. 47. Essendo la regolarità edilizia del fabbricato posta a presidio dell’interesse pubblico all’ordinato assetto del territorio, la carenza della documentazione attestante tale regolarità è rilevabile d’ufficio, in ogni stato e grado del giudizio; parimenti, è rilevabile d’ufficio, in ogni stato e grado del giudizio, il mancato esame di tale documentazione da parte del giudice.

Enuncia perciò un altro principio di diritto: “Quando sia proposta domanda di scioglimento di una comunione (ordinaria o ereditaria che sia), il giudice non può disporre la divisione che abbia ad oggetto un fabbricato abusivo o parti di esso, in assenza della dichiarazione circa gli estremi della concessione edilizia e degli atti ad essa equipollenti, come richiesti dal D.P.R. 6 giugno 2001, n. 380, art. 46 e dalla L. 28 febbraio 1985, n. 47, art. 40, comma 2, costituendo la regolarità edilizia del fabbricato condizione dell’azione ex art. 713 c.c., sotto il profilo della “possibilità giuridica”, e non potendo la pronuncia del giudice realizzare un effetto maggiore e diverso rispetto a quello che è consentito alle parti nell’ambito della loro autonomia negoziale. La mancanza della documentazione attestante la regolarità edilizia dell’edificio e il mancato esame di essa da parte del giudice sono rilevabili d’ufficio in ogni stato e grado del giudizio”.

Con riferimento poi all’altra questione relativa alla possibilità di procedere ad una divisione parziale dell’asse ereditario, con esclusione dell’edificio abusivo che ne faccia parte, osserva che tale possibilità potrebbe apparire, ad un primo esame, preclusa per il fatto di porsi in contrasto col principio della c.d. “universalità” della divisione ereditaria, in forza del quale la divisione dell’eredità deve comprendere, di norma, tutti i beni facenti parte dell’asse ereditario, ma la dottrina e la giurisprudenza sono concordi nell’affermare che il principio dell’universalità della divisione ereditaria non è assoluto e inderogabile. L’art. 762 c.c. dispone che l’omissione di uno o più beni dell’eredità non dà luogo a nullità della divisione, ma determina solo la necessità di procedere ad un supplemento della stessa e così, implicitamente, sancisce la piena validità ed efficacia della “divisione parziale”.

E’ perciò possibile una “divisione parziale” dei beni ereditari, sia contrattuale, allorquando vi sia apposito accordo tra tutti i coeredi, sia giudiziale, quando, essendo stata richiesta tale divisione da uno dei coeredi, gli altri non amplino la domanda, chiedendo a loro volta la divisione dell’intero asse. Con la divisione parziale, ciò che viene attribuito a ciascun partecipante assume la natura di acconto sulla porzione spettante in sede di divisione definitiva. I beni non divisi rimangono in comunione e tale comunione conserva la sua originaria natura ereditaria, con la conseguenza che al suo scioglimento sono applicabili i principi, anche di carattere processuale, propri della divisione ereditari. Il che consente di ritenere ammissibile la divisione giudiziale parziale dell’asse ereditario con esclusione del fabbricato abusivo che ne faccia parte, quando vi sia la concorde volontà di tutti i coeredi. Rimane da stabilire se uno dei coeredi possa validamente opporsi alla domanda di divisione giudiziale parziale dell’asse ereditario, proposta da altro coerede, con la sola esclusione del fabbricato abusivo. Per dare risposta a tale quesito, occorre considerare che la necessità del consenso di tutti i coeredi alla divisione parziale dell’eredità ha come suo presupposto logico la giuridica divisibilità di tutti i beni ereditari. Quando tutti i beni ereditari sono giuridicamente divisibili, la pretesa di uno dei coeredi di ottenere, secondo una propria scelta di convenienza, solo una divisione parziale dell’eredità, facendo proseguire la comunione ereditaria per taluni cespiti, deve essere necessariamente coniugata col diritto di ciascuno dei condividenti di ottenere la divisione dell’intero patrimonio ereditario comune. Diverso è però il caso in cui, tra i beni costituenti il patrimonio del de cuius, vi sia un fabbricato abusivo. In tale ipotesi, il coerede che limita la domanda di divisione ai beni diversi dall’edificio abusivo non compie una scelta di convenienza, ma si adegua semplicemente al disposto del Dpr 380 e della L. 47 che vietano lo scioglimento della comunione relativa ad un tale immobile, per il quale non è possibile indicare nell’atto gli estremi del titolo abilitativo (inesistente). Non vi è ragione, pertanto, di dar rilievo alla volontà degli altri coeredi, convenuti nel giudizio di divisione, e di consentire loro di opporsi alla domanda di divisione che investa tutti i beni dell’asse ereditario con la sola esclusione di quelli che per legge non sono divisibili. Diversamente opinando verrebbe illogicamente compresso il diritto potestativo, spettante ad ogni coerede, di ottenere lo scioglimento della comunione ereditaria; e si conferirebbe ai coeredi convenuti nel giudizio divisorio il potere di impedire, negando il loro consenso, lo scioglimento della comunione ereditaria con riferimento all’intero complesso dei beni per i quali essa è giuridicamente possibile.

Conclude perciò enunciando il seguente principio di diritto: “Allorquando tra i beni costituenti l’asse ereditario vi siano edifici abusivi, ogni coerede ha diritto, ai sensi all’art. 713 c.c., comma 1, di chiedere e ottenere lo scioglimento giudiziale della comunione ereditaria per l’intero complesso degli altri beni ereditari, con la sola esclusione degli edifici abusivi, anche ove non vi sia il consenso degli altri condividenti”.  

Dott. Antonio Galdiero – notaio in Cagliari

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