La Convenzione di Istanbul vincola l'Italia sullo status di rifugiata e di vittima di tratta

Mercoledi 13 Gennaio 2021

Deve “essere riconosciuta la natura strutturale della violenza contro le donne, in quanto basata sul genere, per tale dovendosi intendere qualsiasi violenza diretta contro una donna in quanto tale, o che colpisca le donne in modo sproporzionato (Preambolo e art. 3, lett. d Convenzione Istanbul 11 maggio 2011) ; cosi che le parti ad essa aderenti, tra cui l'Italia, si sono impegnate ad adottare misure legislative o di altro tipo necessarie per garantire che la violenza contro le donne basata sul genere possa essere riconosciuta come una forma di persecuzione ai sensi dell'art. 1 sez. A n. 2 della Convenzione relativa allo status dei rifugiati del 28 luglio 1951 e come una forma grave di pregiudizio che dia luogo a una protezione complementare o sussidiaria”.

Con l'ordinanza n. 10, pubblicata il 4 gennaio 2021, la Cassazione si è pronunciata sul delicato tema del riconoscimento dello status di rifugiato in capo ad una donna nigeriana, vittima di tratta ai fini di sfruttamento sessuale, ribadendo l'obbligo, per l'Italia, al rispetto della Convenzione di Istanbul, sulla prevenzione e la lotta contro la violenza nei confronti delle donne e la violenza domestica.

La portata innovativa del provvedimento in commento consiste nell'aver riconosciuto il diritto alla protezione internazionale per le vittime di violenza di genere le quali possono, altresì, essere avviate ad un programma unico di emersione, di assistenza e di integrazione sociale.

In totale riforma della sentenza di primo grado, la Corte d' Appello di Bologna rigettava la richiesta di protezione internazionale avanzata da una cittadina nigeriana motivando la decisione con la mancanza, nella domanda, dei documenti di riconoscimento e, consequenzialmente, della provenienza della stessa dallo Stato dichiarato all'atto della richiesta oltre che dalla contraddittorietà delle dichiarazioni rilasciate e dall'assenza della prova “di una persecuzione diretta, grave e personale”, come richiesto dal D.lgs n. 251/2007.

La donna ricorreva in Cassazione deducendo, tra gli altri motivi, “la violazione degli artt. 2, primo comma lett. e) d.lg 25/2008, da 1 a 7 e 11 d.lg 251/2007, coordinate con le norme di diritto nazionale ed internazionale in materia di tratta di esseri umani, del d.lg 24/2014, del d.lg 142/2015, del Protocollo Onu contro la tratta, della Convenzione di Istanbul del 2011, della Carta dei diritti fondamentali e della Direttiva 2011/36/UE, per la mancata utilizzazione dalla Corte territoriale del suddetto quadro normativo”.

Il motivo ha ricevuto accoglimento. Sia la normativa internazionale ( tra cui il Protocollo delle Nazioni Unite contro la tratta e la Convenzione di Istanbul), che quella europea e nazionale (per la prima, la Carta dei diritti fondamentali e la Direttiva 2011/36/UE; per la seconda, il D.lgs n. 251/2007, il D.lgs n. 142/ 2015, il D.lgs n. 24/2014), tutelano, nello specifico, la posizione delle vittime di tratta anche in considerazione dell'essere donna che, in quanto tale, può rientrare tra i cosiddetti “gruppi sociali”ai quali la Convenzione di Ginevra riconosce lo status di rifugiato, (“a chiunque, nel giustificato timore di essere perseguitato per la sua razza, la sua religione, la sua cittadinanza, la sua appartenenza ad un determinato gruppo locale o le sue opinioni politiche, si trova fuori dallo Stato di cui possiede la cittadinanza e non può o, per il timore sopra indicato, non vuole ritornarvi”).

Su questa base, dunque, la Cassazione chiarisce che la mancanza di documenti identificativi da parte della donna non può rappresentare un elemento di incertezza, tale da negarle lo status di rifugiata. Già con la sentenza n. 26056 del 2010, la Prima Sezione Civile aveva evidenziato che il giudice deve basare la propria valutazione non tanto sulla credibilità soggettiva del richiedente asilo, quanto sulla sussistenza reale ed effettiva dei presupposti della persecuzione e del pericolo nel paese di origine, richiesti dalla normativa succitata. Anche nel caso oggetto della decisione, l'invito della Corte è quello di valutare il racconto del richiedente nella sua totalità per poi compararlo con tutti gli altri elementi richiesti. Partendo da questi assunti, a parere della Cassazione, la Corte d'Appello non ha bilanciato correttamente la normativa in materia di tratta di esseri umani con quella in materia di protezione internazionale.

La Corte richiama, poi, il Preambolo della Convenzione di Istanbul del 2011, statuendo che deve “essere riconosciuta la natura strutturale della violenza contro le donne, in quanto basata sul genere, per tale dovendosi intendere qualsiasi violenza diretta contro una donna in quanto tale, o che colpisca le donne in modo sproporzionato (Preambolo e art. 3, lett. d) ; cosi che le parti ad essa aderenti, tra cui l'Italia, si sono impegnate ad adottare misure legislative o di altro tipo necessarie per garantire che la violenza contro le donne basata sul genere possa essere riconosciuta come una forma di persecuzione ai sensi dell'art. 1 sez. A n. 2 della Convenzione relativa allo status dei rifugiati del 28 luglio 1951 e come una forma grave di pregiudizio che dia luogo a una protezione complementare o sussidiaria”.

Dunque, la Corte riconosce la natura strutturale della violenza allorquando colpisce le donne in maniera sproporzionata. Una condizione che l'Italia, ratificando e rendendo esecutiva la Convenzione di Istanbul, con la L. n. 77 del 2013, si è impegnata a contrastare.

Per i motivi finora esposti ed accogliendo tutte le richieste avanzate dai legali della donna, la Corte ha accolto il ricorso e rinviato alla Corte d'Appello di Bologna, in diversa composizione.

Allegato:

Pagina generata in 0.082 secondi