La capacità di testimoniare del rappresentante legale di una persona giuridica.

dott. Giulio Emilio Persello  

La questione giuridica che affronterò all’interno del presente articolo riguarda l’istituto della prova per testimoni in relazione alla capacità di testimoniare in capo alla persona fisica che ricopre la veste di rappresentante legale di una persona giuridica.

Mercoledi 27 Maggio 2020

Il presupposto fondamentale da cui partire concerne la differenza primordiale che intercorre tra persona fisica e persona giuridica: la prima viene inquadrata dall’ordinamento giuridico come soggetto di diritto, caratterizzato dai diritti della personalità ovvero da quei diritti che hanno per oggetto attributi essenziali della persona umana; la seconda viene definita come un soggetto di diritto autonomo, ovvero un’organizzazione di persone o beni riconosciuta come un soggetto di diritto, a cui viene attribuita personalità giuridica. Fatta chiarezza sui i protagonisti, è necessario definire il contesto all’interno del quale questi operano ovvero l’istituto giuridico della prova testimoniale, disciplinata nel codice di procedura penale al libro III (prove), titolo II (mezzi di prova), capi I (testimonianza), agli art. 194 – 207, dove per testimonianza si intende la dichiarazione giudiziale di una persona fisica che riferisce fatti di cui abbia avuto esperienza e che abbiano attinenza rispetto all'accusa della cui fondatezza si discute nel processo.

In merito al predetto istituto è opportuno distinguere l'incompatibilità a testimoniare in quanto si pone su un piano diverso rispetto a quello della capacità di assumere la qualità di testimone o rispetto alla valutazione circa l'idoneità del singolo a riferire di fatti rilevanti per la decisione sulla regiudicanda, e a tal proposito, è opportuno iniziare analizzando la questione dal principio ovvero partendo dalla costituzione in giudizio delle parti.

Per quanto concerne la persona fisica che abbia provveduto alla costituzione in giudizio in rappresentanza di una società ovvero per la sua qualità di amministratore, è chiaro quanto evidente sia la sua natura di parte processuale, tuttavia tale veste ricopre un ruolo soltanto formale, difatti la destinataria del futuro giudizio conseguentemente agli effetti della sentenza sarà la sola società, rappresentata dalla predetta persona fisica per ragioni di immedesimazione organica.

Come accennato in precedenza, è doveroso ricordare quanto stabilito dall’art. 246 c.p.c. che accerta il fatto che non possono essere assunte come testimoni le persone aventi nella causa un interesse che potrebbe legittimare la loro partecipazione al giudizio. Tuttavia, secondo la Giurisprudenza più recente, l’interesse che caratterizza l’incapacità a testimoniare di un individuo, ai sensi dell’art. 246 c.p.c., è solamente quello giuridico, personale, concreto ed attuale, che permette una legittimazione principale a proporre l’azione oppure una legittimazione secondaria ad intervenire in un giudizio già proposto da altri cointeressati (Cass. civ., sez. lav., 21 ottobre 2015, n. 21418).

Tale interesse non si identifica con l’interesse di mero fatto che un testimone può avere a che venga decisa in un certo modo la controversia in cui esso sia stato chiamato a deporre, pendente fra altre parti, ma identica a quella vertente tra lui ed un altro soggetto ed anche se quest’ultimo sia, a sua volta, parte del giudizio in cui la deposizione deve essere resa.

Né l’eventuale riunione delle cause connesse (per identità di questioni) può far insorgere l’incapacità delle rispettive parti a rendersi reciproca testimonianza, potendo tale situazione soltanto incidere sull’attendibilità delle relative deposizioni. (Cass. civ., sez. lav., 12 maggio 2006, n. 11034). Come recentemente stabilito dalla Corte di Cassazione, l’interesse a partecipare al giudizio previsto come causa d’incapacità a testimoniare dall’art. 246 c.p.c., si identifica con l’interesse a proporre la domanda e a contraddirvi ex art. 100 c.p.c., sicché deve ritenersi colpito da detta incapacità chi potrebbe, o avrebbe potuto, essere chiamato dall’attore, in linea alternativa o solidale, quale soggetto passivo della stessa pretesa fatta valere contro il convenuto originario da cui potrebbe, o avrebbe potuto, pretendere di essere garantito (Cass. civ., sez. III, 17 luglio 2002, n. 10382).

In riferimento all’analoga situazione del rappresentante organico di società è possibile far riferimento alla sentenza della Terza Sezione della Suprema Corte di Cassazione del 7 settembre 2012, n. 14987, che ha stabilito che in tema di prova per testimoni l’amministratore di una società è incapace a testimoniare soltanto nel processo in cui rappresenti la società medesima, non potendo assumere contemporaneamente la posizione di parte e di teste, ovvero se nella causa abbia un interesse attuale e concreto, che potrebbe legittimarne la partecipazione al giudizio, e non già meramente ipotetico, quale quello relativo ad una sua eventuale responsabilità verso la società.

In relazione al predetto concetto, la Suprema Corte ha ritenuto che, in applicazione del già espresso principio, deve escludersi che l’interesse a partecipare al giudizio possa discendere solo dalla potenziale responsabilità del teste nei confronti degli attori (Cass. civ., sez. I, 26 gennaio 2015, n. 1344).

In via riepilogativa e conclusiva, è giusto ritenere, sotto il profilo di diritto, che l’amministratore di una società non può essere ammesso a deporre nel processo in cui abbia agito come rappresentante della società medesima, data l’assoluta inconciliabilità esistente tra la posizione di testimone e quella di parte. Tuttavia, tale divieto di testimonianza non sussiste, invece, per il venir meno di detta inconciliabilità, qualora l’amministratore sia chiamato a deporre in un processo in cui non rappresenti la società (a maggior ragione, se al momento in cui sia stato indotto come testimone non era più rappresentante della società) poiché in tal caso, non essendo parte, viene a mancare quella situazione d’inconciliabilità da cui deriva l’incapacità a deporre. In tale ultima ipotesi, la detta incapacità può verificarsi, ai sensi dell’art. 246 c.p.c., solo se l’amministratore abbia nella causa un interesse attuale e concreto che potrebbe legittimare la sua partecipazione al giudizio (Cass. civ., sez. II, 11 novembre 1996, n. 9826).

Pertanto, da ciò ne deriva che l’amministratore unico di una società non è incapace a testimoniare in una controversia fra la società ed un terzo qualora al momento in cui è stato indotto come testimone non sia più rappresentante della persona giuridica, a meno che non sussista un interesse che potrebbe legittimare la partecipazione al giudizio come affermato in precedenza.  

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