Cassazione, lavoro: confermato indenizzo per danni da fumo passivo

Cass. Civ. Sez. lavoro, Sentenza n. 3227 del 10/02/2011.
Martedi 1 Marzo 2011

Con questa sentenza la Cassazione ha approvato l’indennizzo per i danni da fumo passivo di un lavoratore che ha respirato per diversi anni il fumo delle sigarette di un collega.
La Suprema Corte ha stabilito che il risarcimento deve essere previsto anche per il rischio non specifico legato al lavoro e per di più anche nei casi in cui la malattia non è tra quelle tumorali previste dalla legge.

Svolgimento del processo

Con sentenza del 1 agosto 2006, la Corte d'appello di Catania, riformando la statuizione di primo grado, ha dichiarato il diritto di N.S. alla costituzione della rendita per inabilità permanente del 47%. La Corte territoriale ha ritenuto provato che N., geometra dipendente del Comune di Linguaglossa, per oltre trent'anni aveva lavorato, per circa cinque ore il giorno, in un locale non areato e aperto al pubblico, insieme ad altro collega fumatore.
Il giudice di prime cure aveva escluso che vi fossero elementi sufficienti per ricondurre all'esposizione al fumo passivo durante l'attività lavorativa le patologie polmonari riscontrate a N., e ciò sul presupposto:
- dell'inapplicabilità, al caso di specie, delle indicazioni contenute nel D.M. 27 aprile 2004 (recante la classificazione di ulteriori malattie professionali ex D.P.R. n. 1124 del 1965), in quanto emanate successivamente alla cessazione dell'attività lavorativa del ricorrente (avvenuta il 1 aprile 2000);
- dell'insussistenza di una malattia professionale tabellata;
- della non inclusione delle patologie denunciate nel novero delle patologie tumorali normativamente individuate (sia pure successivamente al periodo in esame) come possibili conseguenze dell'esposizione continuativa al fumo passivo.

Il consulente tecnico nominato dai Giudici del gravame riteneva, invece, il lavoratore affetto da malattia professionale ("asma bronchiale intrinseco ed enfisema polmonare"), considerata l'anamnesi lavorativa e patologica prossima, i dati in letteratura, gli esami clinici e strumentali eseguiti che avevano evidenziato, attraverso l'esame radiografico del torace, una marcata iperdiafania compatibile con enfisema polmonare attribuibile, verosimilmente, all'esposizione protratta per diversi decenni al fumo passivo ed insorta già nel settembre 1999. Incontestata la valutazione percentuale della riduzione della capacità di lavoro in misura pari al 24%, l'INAIL, in sede di gravame, censurava le conclusioni dell'ausiliare nominato dalla corte territoriale, sulla scorta della personale responsabilità dei lavoratori fumatori, in ambiente lavorativo in cui il fumo non derivava da attività produttive, e del datore di lavoro, per non aver intrapreso adeguate iniziative impositive del divieto di fumo, ed opponeva, pertanto, il rilievo della maggiore incidenza sugli adulti, rispetto ai bambini, del rischio per malattie ischemiche, cardiache, ictus, cancro del polmone e nasale, per esposizione a fumo passivo, sulla base della relazione ministeriale relativa al Piano di applicazione del divieto di fumo nei locali chiusi e alla rassegna degli effetti del fumo passivo sulla salute.

La corte territoriale riconosceva la copertura assicurativa di un rischio ambientale e puntualizzava che:
- era documentalmente provato che fino al 4 maggio 1998 non vi era alcun divieto di fumo negli uffici del Comune, ciò risultando dimostrato dall'ordinanza sindacale, in pari data, impositiva del divieto, adottata anche a seguito delle numerose rimostranze di N.;
- prendendo le mosse dalla relazione ministeriale invocata dall'INAIL, doveva affermarsi la ricomprensione del fumo passivo come possibile fattore di rischio per "esacerbazione asma in adulti";
- non poteva escludersi l'esposizione a rischio in considerazione dell'esistenza di aperture nel locale ove il lavoratore era adibito, circostanza data per certa, benchè non risultante agli atti di causa la (denuncia d'infortunio redatta dal segretario comunale del comune recante menzione di tale circostanza, nè prodotta dall'INAIL, pur all'uopo sollecitato;
- in assenza di prova circa l'esistenza di adeguati apparecchi di areazione e aspirazione forzata, l'esistenza di finestre non consentiva, comunque, di addivenire alla conclusione della salubrità ambientale del luogo di lavoro, anche in considerazione della rigidità del clima del comune ove il lavoratore prestava la sua attività, tale da non consentire, per la maggior parte dell'anno, lo svolgimento dell'attività a "finestre aperte". 5. La corte territoriale ha quindi condannato l'INAIL al pagamento della rendita riproporzionata in considerazione di una precedente rendita per infortunio al 23%, nella misura complessiva del 47% a decorrere dal mese di settembre del 1999. 6. Avverso detta sentenza l'INAIL, in persona del legale rappresentante pro tempore, ricorre con unico motivo. Resiste con controricorso N., illustrato con memoria difensiva ex art. 378 c.p.c..

Motivi della decisione


Con l'unico motivo di ricorso l'INAIL denuncia, ai sensi dell'art. 360, n. 3, violazione del D.P.R. 30 giugno 1965, n. 1124, art. 3.

L'istituto prospetta una questione di diritto relativa alla corretta interpretazione, e applicazione, del D.P.R. 30 giugno 1965, n. 1124, art. 3 in ordine all'esatta delimitazione della categoria delle malattie professionali non tabellate, richiamando Corte Cost. n. 179 del 1988 (declaratoria di illegittimità, per contrasto con l'art. 38 Cost., della disposizione sopra citata, nella parte in cui non prevede che l'assicurazione contro le malattie professionali nell'industria è obbligatoria anche per malattie diverse da quelle comprese nelle tabelle allegate concernenti le dette malattie e da quelle causate da una lavorazione specificata o da un agente patogeno indicato nelle tabelle stesse, purchè si tratti di malattie delle quali sia comunque provata la causa di lavoro).

Ad avviso del ricorrente, l'opzione ermeneutica seguita dai Giudici di appello, di riconoscimento dell'indennizzabilità della patologia sul presupposto che, a seguito del citato arresto del Giudice delle leggi, possa essere qualificata come professionale qualsiasi malattia causata da qualunque rischio comunque connesso al lavoro, si pone in contrasto con altra opzione ermeneutica, a sostegno della quale viene richiamata la giurisprudenza amministrativa (Cons. Stato, sez. 6°, n. 1576/2009), secondo cui dopo la richiamata sentenza della Corte Costituzionale sono tutelabili come malattie professionali non tabellate anche patologie diverse da quelle elencate nelle apposite tabelle, ma sempre che esse siano causate dal rischio specifico di una delle lavorazioni indicate nel D.P.R. n. 1124 cit., art. 1

L'illustrazione del motivo si conclude con la formulazione del seguente quesito di diritto: "E' conforme a corretta interpretazione ed applicazione del D.P.R. 30 giugno 1965, n. 1124, art. 3 la sentenza con la quale sia stata riconosciuta la natura professionale della broncopatia perchè causata dall'esposizione al fumo passivo in ambiente di lavoro, considerato che si tratta di rischio connesso al lavoro, ma che non si configura come rischio specifico della lavorazione in ragione della quale il lavoratore è tutelabile ai sensi del citato D.P.R.?"

Preliminarmente, va disattesa l'eccezione di novità del motivo di ricorso, sollevata dall'intimato, sotto il profilo della novità della deduzione in sede di legittimità. Non si tratta, invero, della prospettazione di una questione fondata su elementi fattuali nuovi, ma di nuovi profili di diritto compresi nel dibattito e basati sugli stessi elementi di fatto dedotti nelle precedenti fasi, come tali proponibili, anche per la prima volta, in sede di legittimità (v.Cass. 10192/2007, Cass. 20005/2005, Cass. 9812/2002, Cass. 3881/2000). Ne consegue che l'unico motivo di ricorso è scrutinabile, nel merito, non prospettando una questione nuova.

Osserva il Collegio che la Corte territoriale, non essendo contestato trattarsi di attività lavorativa assicurata, si è uniformata agli approdi ermeneutici di legittimità secondo cui:

a) la tutela antinfortunistica del lavoratore si estende alle ipotesi di c.d. rischio specifico improprio, definito come quello che, pur non insito nell'atto materiale della prestazione lavorativa, riguarda situazioni ed attività strettamente connesse con la prestazione stessa (cfr., ex multis, Cass. 131/1990 in tema di pause fisiologiche; ex multis, Cass. 12652/1998, Cass. 10298/2000, Cass. 3363/2001, Cass. 9556/2001, Cass. 1944/2002, Cass. 6894/2002, Cass. 5841/2002, Cass. 7633/2004, Cass. 5354/2002, Cass. 16417/2005, Cass. 10317/2006, Cass. 27829/2009 in tema di atti di locomozione interna; ed ancora Cass. 3765/2004 in tema di attività prodromica e strumentale all'attività lavorativa);

b) la nozione di rischio ambientale comporta che è tutelato il lavoro in sè e per sè considerato e non soltanto quello reso presso le macchine, essendo la pericolosità data dall'ambiente di lavoro (a partire da Cass. SU 3476/94); c) i fattori di rischio per le malattie non tabellate comprendono anche quelle situazioni di dannosità che, seppure ricorrenti anche per attività non lavorative, costituiscono però un rischio specifico per l'assicurato (v. Cass. 14565/99).

Il ricorrente non offre, al riguardo, pregnanti e nuovi argomenti che possano indurre questa Corte a discostarsi dal proprio orientamento.
Il riconoscimento da parte dei Giudici del gravame della malattia professionale non tabellata postulava, inoltre, censure specifiche, in sede di legittimità, in ordine alla prova della derivazione della malattia da causa di lavoro e alla relativa valutazione, in termini di ragionevole certezza e di "elevato grado di probabilità", dell'origine professionale (ex multis, Cass. 18270/2010, Cass. 14308/2006, Cass. n. 12559/2006, Cass. 11128/2004).
Invero, nel caso di malattia professionale non tabellata, come del resto per la malattia ad eziologia multifattoriale, la prova della causa di lavoro, gravante sul lavoratore, deve essere valutata in termini di ragionevole certezza, nel senso che, esclusa la rilevanza della mera possibilità dell'origine professionale, questa può essere invece ravvisata in presenza di un rilevante grado di probabilità. A tale riguardo, il giudice deve non solo consentire all'assicurato di esperire i mezzi di prova ammissibili e ritualmente dedotti, ma deve altresì valutare le conclusioni probabilistiche del consulente tecnico in tema di nesso causale, facendo ricorso ad ogni utile iniziativa ex officio, diretta ad acquisire ulteriori elementi (nuove indagini o richiesta di chiarimenti al consulente tecnico ecc.) in relazione all'entità ed all'esposizione del lavoratore ai fattori di rischio, ed anche considerando che la natura professionale della malattia può essere desunta, con elevato grado di probabilità, dalla tipologia delle lavorazioni svolte, dalla natura dei macchinari presenti nell'ambiente di lavoro, dalla durata della prestazione lavorativa e dall'assenza di altri fattori extralavorativi, alternativi o concorrenti, che possano costituire causa della malattia (ex multis, Cass. 11128/2004; Cass. 5352/2002).
Inoltre, come ripetutamente affermato da questa Corte, l'ausiliare nominato dal Giudice può giungere al giudizio di ragionevole probabilità anche in base alla compatibilità della malattia non tabellata con la noxa professionale, desunta dalla tipologia delle lavorazioni svolte, dalla natura dei macchinari presenti sul luogo di lavoro, della durata della prestazione lavorativa, e per l'assenza di altri fattori extra - professionali, utilizzando, a tale scopo, congiuntamente anche dati epidemiologici, per suffragare una qualificata probabilità. Per questa via probabilistica il dato epidemiologico, che di per sè attiene ad una diversa finalità, può assumere un significato causale, tant'è che la mancata utilizzazione di tale dato da parte del giudice del merito, nonostante la richiesta della difesa corroborata da precise deduzioni del consulente tecnico di parte, è denunciabile per Cassazione (vedine, per tutte, Cass. 206(55/2005, Cass. 8073/2004).

A tali principi si è uniformata la Corte territoriale che ha espressamente fatto proprie le conclusioni cui il consulente pneumologo è pervenuto sulla base dell'anamnesi lavorativa e patologica e alla stregua dei più recenti studi epidemiologici che hanno confermato la stretta correlazione tra l'esposizione al fumo passivo e i sintomi respiratori cronici (in particolare, gli studi di Robbins, Leuenberger, Allan & Hambrurys. Inoltre, la Corte ha ritenuto documentalmente provato che negli uffici comunali ove il lavoratore svolgeva la prestazione non vigeva alcun di divieto di fumo, e ciò per decenni e fino al 4 maggio 1998 allorchè, con ordinanza in pari data, veniva dettato il divieto di fumo negli uffici comunali di Linguaglossa. Ed ancora, la Corte territoriale, in difetto di prova in ordine all'esistenza di adeguati apparecchi di areazione e aspirazione forzata, ha escluso che la presenza di finestre nel locale ove N. lavorava (circostanza incontroversa) consentisse comunque di pervenire ad un giudizio di salubrità ambientale, rimarcando tale valutazione sulla base del rilievo secondo cui la rigidità del clima della località ove si trovavano gli uffici del comune di Linaguaglossa e ove il lavoratore prestava la sua attività, non consentisse lo svolgimento della prestazione lavorativa a finestre aperte.
L'INAIL non ha censurato nè l'accertamento in fatto sul quale si fonda la sentenza impugnata, nè l'adesione prestata dalla corte territoriale al parere espresso dall'ausiliare tecnico nominato in sede di gravame, nè, specificamente e adeguatamente, il nesso eziologico tra la malattia professionale non tabellata e l'esposizione del lavoratore, per diversi decenni, a fumo passivo in ambiente lavorativo aperto al pubblico ove non vigeva divieto di fumo (per diversi decenni e fino ai primi giorni del mese di maggio del 1998).

Ne consegue, pertanto, il rigetto del ricorso. Ogni altra questione, in particolare l'estensione del thema disputandum a profili concernenti la ricorrenza, nella specie, di una malattia professionale tabellata, rimane assorbita.
Tenuto conto della peculiarità della fattispecie sussistono giusti motivi per disporre la compensazione delle spese del giudizio tra le parti.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso, spese compensate.

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