Vittime dei processi mediatici

Negli ultimi tempi i mass media hanno trasformato la giustizia in spettacolo, portando nelle nostre case notizie di indagini e processi attraverso giornali e telegiornali, salotti televisivi e talk show.

Sabato 11 Ottobre 2025

E non si tratta, purtroppo, solo di fare informazione o cronaca giudiziaria, bensì di fornire una rappresentazione spettacolarizzata dove la corretta descrizione dei fatti viene sacrificata all’audience.

In tal modo si avvia una sorta di processo parallelo incurante delle regole e delle garanzie individuali, facendo leva sull’indignazione morale del pubblico e generando una volontà punitiva che prescinde dal principio di non colpevolezza riconosciuto dalla nostra Costituzione.

Nel “tribunale mediatico” il diritto rischia di rimanere imbrigliato nel giudizio dell’opinione pubblica, che trasforma automaticamente l’indagato in colpevole, negandogli sia il diritto alla presunzione d’innocenza, ma anche molti altri diritti fondamentali.

E’ quanto ha affermato in maniera condivisibile, in una recente pubblicazione, Vittorio Manes avvocato e docente universitario di Diritto Penale, mettendo in rilievo gli «effetti perversi» di tali dinamiche sull’esito del processo e indicando le vie da seguire per far sì che la giustizia non rischi di perdere autonomia e credibilità.

Sulla stessa lunghezza d’onda è intervenuto anche Vincenzo Roppo che, sulle pagine della Rivista Il Dubbio del 6 Ottobre, analizzando il fenomeno, ha affermato che i problemi di anti-garantismo derivano da fattori istituzionali ossia dagli interventi del legislatore e dall’azione della Magistratura.

Ma il garantismo è minacciato anche da fattori socio-culturali a partire dalle modalità con cui l’informazione cartacea o elettronica tratta i fatti della giustizia penale.

Sta di fatto che i mass media si concentrano su alcuni crimini commessi, e, facendo leva sulla curiosità morbosa popolare, ne fanno materia di processi paralleli celebrati sulle pagine dei giornali o sugli schermi delle televisioni, così avviando processi-spettacolo offerti a un pubblico di lettori o spettatori avidi di coinvolgersi nelle vicende processuali non solo come osservatori distaccati ma, sempre più spesso, tifando per l’uno o l’altro dei protagonisti dello spettacolo mediatico, sempre più ricco di colpi di scena.

È un fenomeno mediatico che, di per sé, non appartiene al mondo del diritto, ma piuttosto a quello della comunicazione, del costume, della cultura di massa che, tuttavia, assume contorni così estese e profonde con la realtà della giustizia penale, che gli stessi giuristi non mancano di farne materia delle loro riflessioni.

E’ così che è emerso un nuovo concetto giuridico ossia quello del c.d. “Processo mediatico” ma anche, in senso negativo, quello dell’avvento di una sorta di “circo mediatico-giudiziario” per descrivere gli intrecci e i condizionamenti reciproci fra giustizia penale e comunicazione di massa che, tuttavia, possono dare luogo a qualcosa di molto discutibile, sul piano della difesa dei diritti individuali.

Se è vero che i professionisti dell’informazione abbiano il diritto (e anche il dovere) di trasmettere al pubblico notizie e commenti sui processi in corso, non appare sostenibile la diffusione di immagini, interviste e prove raccolte sul campo anche attraverso le testimonianze di malati di protagonismo e, spesso, di mitomani.

Tutto questo contrasta con la trasparenza della Giustizia e dei modi in cui essa viene esercitata, che costituisce il presupposto perché essa svolga la sua funzione di garantire l’ordinata e pacifica convivenza sociale, ed ancor più nel campo della Giustizia Penale in cui viene esercitata la potestà punitiva dello Stato.

Da quanto innanzi esposto emerge la necessità di porre limiti alla Giustizia Mediatica per evitare che una totale e indiscriminata conoscenza pubblica dei fatti del processo pregiudichi obiettivi e valori che meritano di essere salvaguardati.

La divulgazione di fatti e commenti relativi al processo va contemperata col giusto rispetto che si deve alla riservatezza e all’onore delle persone coinvolte a vario titolo nelle indagini, con particolare riguardo ai Familiari delle Vittime che, in quanto tali, meritano il massimo rispetto.

In questo scenario trova la sua collocazione la tutela dei valori garantisti che subiscono danni dalle più discutibili pratiche del “processo mediatico” poiché si pone in discussione il loro diritto ad un processo “giusto” dinanzi ad un Giudice Terzo, così come sancito dall’art 111 della Costituzione.

Alcuni atti del processo vanno tenuti coperti, almeno per un certo tempo perché la loro segretezza è indispensabile per l’efficacia delle indagini, soprattutto nella fase iniziale istruttoria destinata alla acquisizione delle prove a carico del presunto colpevole.

Appare, quindi, necessario operare un ragionevole bilanciamento tra finalità e principi tutti apprezzabili, ma in potenziale conflitto reciproco e affinché le regole del bilanciamento vengano effettivamente rispettate e sanzionate se violate.

L’interesse mediatico per i fatti della giustizia penale è massimo nella fase iniziale, quando “esplode il caso” ossia quando risulta che una Procura della Repubblica svolge indagini su qualche ipotesi di reato.

Quello che accade successivamente, con il dibattimento, e poi persino con la decisione, diviene meno “interessante” dal punto di vista mediatico atteso che possono passare anni tra l’avvio delle indagini e la decisione dei Tribunali e la curiosità dell’opinione pubblica, già saturata dai mass media, diviene limitata e con essa l’attenzione che il sistema informativo vi dedica, tanto meno in caso di assoluzione del preteso colpevole.

Inoltre, la fase del dibattimento e lo svolgimento del giudizio sono, molto più delle indagini, intrisi di tecnicismi che il normale utente della stampa e dei mass media fatica a seguire.

Pertanto, se nel processo mediatico il protagonista assoluto è il Pubblico Ministero che avvia le indagini e stabilisce l’accusa, nel dibattimento la figura del Giudice terzo e imparziale resta marginale e sfuocata.

In conseguenza, il P.M. diviene per i professionisti dell’informazione un interlocutore privilegiato per avviare uno “scambio” di informazioni utili che soddisfa l’interesse di entrambi: l’interesse del Magistrato inquirente a che la propria azione divenga oggetto mediatico, conquistando risonanza e visibilità presso l’opinione pubblica e soprattutto l’interesse del giornalista a ricevere da lui elementi di conoscenza, valutazioni e commenti sull’iniziativa penale in corso, che sono il materiale indispensabile per il suo lavoro professionale.

La trasparenza delle indagini e del giudizio divengono lo strumento per informare l’opinione pubblica in aperto contrasto con il vero significato del termine che vale a fini solo processuali e non informativi.

Il processo, in tal modo, diviene mediatico ma ne esce segnato da gravi distorsioni che compromettono l’importanza del garantismo verso tutti i soggetti coinvolti imputati o Vittime di reato.

Se le indagini svolte dall’accusa prendono tutta la scena, oscurando fino alla soglia dell’irrilevanza il successivo dibattimento e poi perfino la sentenza con le sue motivazioni, che ne è del principio garantista per cui il giudizio sulla responsabilità penale dell’imputato si forma esclusivamente con le prove raccolte nel dibattimento, nel contraddittorio su basi di parità fra accusa e difesa, come stabilisce il Codice di Rito.

Ove si considera che la prevalente fonte informativa del sistema mediatico che lo celebra è l’accusa, è inevitabile che il processo venga rappresentato in termini che riflettono la tesi accusatoria “colpevolista” che costituisce una tesi che l’opinione pubblica tenderà a interiorizzare, perché asseconda quell’ansia di colpevolizzazione e di punizione che spesso insorge nel corpo sociale di fronte a eventi che toccano in modo forte la vita e la sensibilità collettive, e che si vorrebbe esorcizzare solo trovando un colpevole da punire rapidamente.

Il processo mediatico diviene così, inevitabilmente, una “gogna mediatica” a cui sottoporre il sospettato prescindendo dalle sue difese.

La Vittima di un “processo anticipato” sui mass media non può contare neppure su un pur tardivo recupero, grazie alla sentenza che alla fine assolva l’imputato dichiarandolo innocente, posto che la decisione dei Tribubali scivola tra due opposte visioni: l’irrilevanza e il vituperio.

Irrilevanza: il processo mediatico viene celebrato ed esaurito nella fase delle indagini, sotto il segno della tesi accusatoria e quando arriva la sentenza, diviene una storia vecchia che non cattura più l’attenzione. L’assoluzione del preteso colpevole non incide nell’opinione pubblica, perché non riesce a dissolvere l’immagine di colpevolezza creatasi sin dall’inizio intorno all’imputato.

Vituperio: quand’anche l’opinione pubblica si mostri attenta alla decisione assolutoria, essa diviene oggetto di critiche sdegnate a causa delle opinioni colpevoliste che il processo mediatico aveva all’inizio indotto o avallato nella coscienza collettiva.

In conseguenza, il processo mediatico diviene un veicolo di lesione delle garanzie dovute a fondamentali diritti della persona coinvolta come l’onore, la riservatezza, l’immagine.

I processi svolti contro Enzo Carra e Enzo Tortora ne sono l’esempio palmare come pure quello di Garlasco che vede parte anche persone estranee a ogni imputazione come quando si pubblicano conversazioni intercettate fra l’imputato e i suoi interlocutori, le cui parole finiscono in pasto al pubblico come le parole dell’imputato, relative a vicende e persone che non hanno nulla a che fare con il processo.

Un caso esemplare di “processo mediatico” è divenuto quello di Garlasco nonostante una condanna definitiva, arrivata dopo due precedenti assoluzioni sulla quale la stessa Procura Generale aveva espresso i propri dubbi sulla identità del presunto assassino.

Tali dubbi basterebbero ad affermare che l’imputato non è stato condannato “oltre ogni ragionevole dubbio”, così come impone la legge, ma anche se così non fosse, è giusto che ogni imputato tenti in ogni modo di dimostrare la propria innocenza, utilizzando qualsiasi appiglio utile a far riaprire il proprio processo e ottenere una revisione dello stesso.

Nondimeno, altrettanto doveroso, ed anzi obbligatorio, dovrebbe essere che, qualora emergano nuovi indizi tali da cambiare una verità giudiziaria, definitivamente accertata in precedenza, i Magistrati tornino ad indagare, esplorando tutte le ipotesi tralasciate, rileggendo i documenti, analizzando nuovamente i reperti, ordinando nuovi esami, soprattutto se la scienza attuale consentisse di pervenire a risultati diversi da quelli ottenuti in passato.

In tal caso, tuttavia, non vanno dimenticate alcune importanti regole di tali attività che devono essere osservate in questi casi, tra cui, sopratutto, il diritto dei cittadini coinvolti a non essere stritolati in un meccanismo mediatico che tutto stravolge in nome della ricerca della verità che, invece, dovrebbe seguire uno schema rigoroso ed un assoluto ed inviolabile riserbo processuale.

Le indagini svolte in precedenza potrebbero essere segnate da ritardi, sbagli, forse anche depistaggi, inciampi che potrebbero aver pesato in maniera determinante sull’esito dell’inchiesta, laddove il condizionale è d’obbligo.

Tuttavia, questo non impedisce che, sulla base di elementi davvero nuovi, indicati dallo stesso condannato, si possa avviare una nuova indagine sulle modalità e i tempi del commesso reato ma, in questi casi, è indispensabile operare nel massimo riserbo quando si affronta un caso di omicidio per cui la cautela è obbligatoria.

Non è possibile, soprattutto, esporre all’attenzione dell’Opinione Pubblica le persone coinvolte alimentando sospetti sul loro conto, senza avere elementi probatori certi nei loro confronti.

Per contro, se emergessero nuovi elementi, sarebbe bene, comunque, non renderli noti per non danneggiare una nuova indagine che assegni ad essi una nuova rilevanza che potrebbe non avere avuto nel delitto già giudicato tale.

In particolare occorrerebbe proteggere i nuovi accertamenti, e con essi, i destinatari dei provvedimenti, con una riservatezza che non ammette deroghe, ivi compresa la richiesta di sottoporsi al test del Dna a persone non indagate oppure a rispondere agli interrogatori su elementi che siano stati acquisiti nel corso dei nuovi accertamenti.

Numerose sono state le inchieste che sono state segnate, ma anche alterate, dalle fughe di notizie, sebbene tante altre si siano svolte nel segreto più assoluto, come impone la Legge, senza che mai si sapesse nulla di quanto stava accadendo sino a quando i Magistrati inquirenti non hanno deciso di avviare un nuovo processo oppure richiederne l’archiviazione.

Va sottolineato che, in alcuni casi si assiste ad uno spettacolo indecoroso con avvocati che si fronteggiano persino sui social, periti che anticipano l’esito delle consulenze, vecchi e nuovi investigatori che veicolano informazioni riservate, con il chiaro intento di condizionare la nuova indagine avviata dalla Procura.

In definitiva, sarebbe utile fermare questa sorta di “circo mediatico” e tocca alla Procura farlo, anche per non esporre l’indagine ad un possibile uso strumentale della giustizia.

Si tratta di un atto necessario ed urgente per il rispetto che si deve alla Vittima di un omicidio ed ai suoi Familiari ma anche per dimostrare che, davvero, si vuole fare chiarezza sul caso.

L’interesse mediatico che nella gran parte dei casi spinge a rendere pubblici i fatti non è la loro oggettiva pertinenza alla materia del processo o la loro rilevanza pubblica, ma piuttosto la loro capacità di soddisfare futili se non morbose curiosità del pubblico.

A tanto va aggiunto che questo ne esalta la potenzialità lesiva perché quanto più i fatti o le parole di una persona suscitano curiosità morbosa, tanto più significa che sono fatti o parole della sua sfera intima, meritevoli quindi di particolare protezione.

Occorre chiedersi come realizzare un migliore bilanciamento fra la necessaria informazione del pubblico intorno ai fatti della giustizia penale, e la salvaguardia delle garanzie che rischiano di uscire lese da cattive pratiche informative.

Sono necessari appropriati interventi del Legislatore su qualche punto assai critico ricorrendo al recente decreto attuativo della Direttiva Europea sulla presunzione di innocenza, là dove pone freni all’esuberanza informativa delle Procure e della Polizia giudiziaria, stabilendo modalità vincolate per le comunicazioni al pubblico su indagini o processi in corso evitando ogni comunicazione personale/informale ed imporre solo comunicati ufficiali del Procuratore e nessuna conferenza stampa se non in casi eccezionali di rilevante interesse pubblico dei fatti con l’applicazione di più elevati standard etico-professionali da parte degli operatori che pur su fronti diversi risultano ugualmente coinvolti: giornalisti e magistrati.

In definitiva, occorre tutelare il diritto dei cittadini a non essere lesi nella reputazione come Vittime delle ricostruzioni mediatiche di fatti delittuosi, come ha affermato, di recente, la Corte di Cassazione ponendo fine ad una sequela di affermazioni quanto meno irriguardose nei confronti di autori e presunti autori di reati, come pure delle stesse Vittime di tali episodi, che, tuttavia, alimentano una curiosità morbosa verso vicende sopite a causa della ricerca di nuove verità.

In conseguenza, la Corte ha stabilito, con la sentenza n.19102/2025, un principio rilevante in base al quale “la pubblicazione di notizie anche oggettivamente diffamatorie è scriminata (ossia non costituisce reato) se il giornalista rispetta i limiti di verità, continenza e dell’interesse pubblico”

In effetti la sentenza è destinata a fornire un importante chiarimento sui limiti e le condizioni di esercizio del diritto di cronaca giudiziaria, in particolare quando la notizia abbia un contenuto oggettivamente lesivo della reputazione altrui.

La Corte, infatti, ha stabilito che l’esercizio del diritto di cronaca può giustificare una “oggettiva lesione della reputazione di un individuo”, purché “la rappresentazione offerta risponda ad un interesse pubblico alla conoscenza dei fatti narrati, tale da legittimare la compressione dei simmetrici diritti della persona, offra una descrizione della realtà coerente con la verità oggettiva, o anche soltanto putativa purché frutto di un serio e diligente lavoro di ricerca, e sia rappresentata in forma “civile”.

Inoltre, la decisione chiarisce, che, qualora la notizia sia mutuata da un provvedimento giudiziario, il criterio della verità si risolve nella necessaria coerenza della notizia divulgata rispetto al contenuto degli atti e dei provvedimenti dell’autorità giudiziaria non solo sotto il profilo della mera correttezza formale dell’esposizione ma anche sotto quello, sostanziale, della complessiva rappresentazione dell’intero contesto investigativo che deve essere condotta nel rispetto della necessaria presunzione di non colpevolezza.

A tal fine, secondo la Corte, il giornalista deve attenersi rigorosamente ai termini delle indagini e non può rappresentare la vicenda in modo sbilan ciato o suggestivo.

Infine, sempre sul punto, la S.C. ribadisce che, in base alle decisioni pregresse, “non sono consentite al giornalista aprioristiche scelte di campo o sbilanciamenti di sorta a favore dell’ipotesi accusatoria, capaci di ingenerare nel lettore facili suggestioni, in spregio del dettato costituzionale di presunzione di non colpevolezza dell’imputato sino alla sentenza definitiva”.

Più in particolare, nella utilizzazione dei mezzi di informazione, fatti e notizie “debbono (…) essere riferiti con correttezza, non potendosi ricomprendere nell’interesse sociale che giustifica la discriminante dell’esercizio del diritto di cronaca giornalistica inutili eccessi ed aggressioni all’interesse morale della persona. La valutazione di tale requisito, però, va effettuata con riferimento non solo al contenuto letterale dell’articolo ma anche alle modalità complessive con le quali la notizia viene data, sicché decisivo può essere l’esame dei titoli e sottotitoli, lo spazio utilizzato per sottolineare maliziosamente alcuni particolari, l’utilizzazione eventuale di fotografie, con la conseguenza che l’eventuale valutazione negativa della correttezza farebbe venir meno il requisito della continenza e quindi la configurabilità della esimente del diritto di cronaca”(v.Cass. pen., sez. V, sent. 31 agosto 1993, n. 8374).

  • Conclusioni

Qualora la notizia sia mutuata da un provvedimento giudiziario, il criterio della verità si risolve nella necessaria coerenza della notizia divulgata rispetto al contenuto degli atti e dei provvedimenti della Autorità giudiziaria, non solo sotto il profilo della mera correttezza formale dell'esposizione, ma anche sotto quello sostanziale, della complessiva rappresentazione dell'intero contesto investigativo, che deve essere condotta nel rispetto della necessaria presunzione di non colpevolezza, garantita dalla Costituzione.

Tanto più nella delicata fase delle indagini preliminari, dove è doveroso un racconto asettico, senza enfasi od indebite anticipazioni di colpevolezza, non essendo consentito al giornalista aprioristiche scelte di campo o sbilanciamenti di sorta a favore dell'ipotesi accusatoria, capace di ingenerare nel lettore facili suggestioni, in spregio del dettato costituzionale di innocenza dell'imputato (ed a fortiori dell'indagato) sino alla sentenza definitiva.

Entro questi limiti, il bilanciamento tra l'interesse individuale alla tutela di diritti della personalità quali l'onore, la reputazione e la riservatezza, e quello, costituzionalmente protetto, alla libera manifestazione del pensiero deve risolversi in favore di quest'ultimo, avuto riguardo al prevalente diritto dell'Opinione pubblica ad essere informata in ordine a vicende di rilevante interesse collettivo.

Se, infatti, il cronista non è certamente tenuto a verificare la fondatezza della accusa dovendo, piuttosto, controllarne rigorosamente i termini di formulazione, parimenti non può indulgere ad alcuna preconcetta opzione di responsabilità, rendendo una ricostruzione in chiave colpevolista.

In conseguenza, se non gli si può impedire di avere, al riguardo, una opinione da manifestare, non gli è consentito rappresentare la vicenda in termini diversi da ciò che è realmente accaduto attorno ad ipotesi d'illecito e di penale responsabilità, tutte ancora da verificare in concreto fino alla sentenza definitiva come impone la nostra Costituzione.


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