Nella mediazione civile non è obbligatoria la presenza dell’avvocato

Avv. Alfredo Maiello.
Sabato 22 Agosto 2020

Sommario:

Le sentenze

Secondo alcune sentenze di merito (Tribunale di Torino, sentenza del 30 marzo 2016 n.1770; Tribunale, Vasto, ordinanza riservata 09/04/2018), il procedimento di mediazione esperito senza l'assistenza di un avvocato non può considerarsi validamente svolto sicché la domanda giudiziale dovrà essere dichiarata improcedibile.

La circolare interpretativa del 27 novembre 2013 del Ministero della Giustizia, prot. n. 1683229

Ulteriore tentativo di fare chiarezza sul punto è la Circolare interpretativa del 27 novembre 2013 del Ministero della Giustizia, prot. n. 1683229, ove è si legge: "avvocati e mediazione. … omissis … Deve essere altresì chiarito che l’assistenza dell’avvocato è obbligatoria esclusivamente nelle ipotesi di c.d. mediazione obbligatoria (ivi compresa quella disposta dal giudice ex art. 5 comma 2), ma non anche nelle ipotesi di mediazione facoltativa. A tale soluzione si perviene agevolmente osservando che, in via generale, il nuovo testo dell’art. 12, comma 1, espressamente configura l’assistenza legale delle parti in mediazione come meramente eventuale (“ove tutte le parti aderenti alla mediazione siano assistite da un avvocato…”). Di talchè, ferma la necessità dell’assistenza legale nelle forme di mediazione obbligatoria, nella mediazione c.d. facoltativa le parti possono partecipare senza l’assistenza di un avvocato. A tale conclusione non è di ostacolo la disposizione dell’art. 8 del decreto legislativo, che prevede che “al primo incontro e agli incontri successivi, fino al termine della procedura, le parti devono partecipare con l’assistenza dell’avvocato”. Apparentemente di ambito generale, in realtà tale disposizione costituisce un completamento della previsione di cui all’art. 5, nel senso che, nelle ipotesi in cui il procedimento di mediazione è condizione di procedibilità, la parte che vorrà attivare la procedura di mediazione dovrà avvalersi dell’assistenza di un avvocato non solo al momento del deposito dell’istanza, ma anche per tutti i momenti successivi del procedimento di mediazione, fino al termine della procedura. Naturalmente, nell’ambito della mediazione facoltativa, le parti potranno in ogni momento esercitare la facoltà di ricorrere all’assistenza di un avvocato, anche in corso di procedura di mediazione. In questo caso nulla vieta che le parti vengano assistite dagli avvocati solo nella fase finale della mediazione e che, quindi, i legali possano, ad esempio, intervenire per assistere le parti nel momento conclusivo dell’accordo di mediazione, anche al fine di sottoscriverne il contenuto e certificarne la conformità alle norme imperative e all’ordine pubblico, ai sensi e per gli effetti di cui all’art. 12 citato".

Il dettato normativo

Il dubbio interpretativo è determinato dall’art. 12 del D. Lgs. n. 28 del 2010 che ha stabilito che l'accordo possa acquisire efficacia esecutiva "ove tutte le parti aderenti alla mediazione siano assistite da un avvocato l'accordo che sia stato sottoscritto dalle parti e dagli stessi avvocati costituisce titolo esecutivo”.

Viceversa, “in tutti gli altri casi l'accordo allegato al verbale è omologato, su istanza di parte, con decreto del presidente del tribunale, previo accertamento della regolarità formale e del rispetto delle norme imperative e dell'ordine pubblico”.

Inoltre, nella Legge non vi è alcuna norma che prevede esplicitamente l’improcedibilità del giudizio in caso di assenza del difensore.

In realtà, la soluzione più equilibrata sembra rinvenirsi facendo applicazione dei canoni ermeneutici previsti dalla legge: letterale (art. 8 D. Lgs. 28/2010), sistematico (artt. 8, 11 e 12 normativa citata) e logico.

E, allora, occorre leggere con attenzione le norme in questione:

L’art. 5, comma 1 bis, d. lgs n. 28 del 2010, modificato, stabilisce che: «Chi intende esercitare in giudizio un’azione […] è tenuto, assistito dall’avvocato, preliminarmente a esperire il procedimento di mediazione […]».

L’art. 8, comma 1, parte seconda, d. lgs n. 28 cit. prevede che: «Al primo incontro e agli incontri successivi, fino al termine della procedura, le parti devono partecipare con l’assistenza dell’avvocato […]».

L’art. 8, comma 1, parte terza, d. lgs n. 28 cit. ancora precisa che: «Il mediatore […] invita le parti e i loro avvocati a esprimersi sulla possibilità di iniziare la procedura di mediazione e, nel caso positivo, procede allo svolgimento».

Dunque, le norme richiamate apparentemente richiedono l’assistenza del legale ma non vi è alcuna sanzione in caso di assenza dell’avvocato e, soprattutto, tale apparente necessità è sconfessata dall’art. 12 richiamato.

Ma, a mio avviso, la prova della non necessità della presenza dell’avvocato si deduce anche dal fatto che la vigente legislazione non prevede la possibilità farsi assistere da un legale con il gratuito patrocinio.

Infatti, le spese coperte dal gratuito patrocinio si limitano all'indennità dovuta all'organismo di conciliazione, mentre il compenso dell'avvocato che assiste il cliente durante la mediazione dovrà essere corrisposto a parte.

Affermare il contrario significherebbe dire che lo Stato impone ai privati di essere assistiti da un avvocato obbligatoriamente quando cercano di comporre bonariamente i loro interessi.

L’assistenza dell’avvocato rimane obbligatoria soltanto in ambito processuale ove è giustificata dalla tecnicità del processo e, non a caso, solo in tal caso è previsto il gratuito patrocinio per i non abbienti.

Sul punto ritengo doveroso ricordare una sentenza dirompente emessa dal Tribunale di Firenze che, addirittura, ammette al patrocinio a spese dello Stato una parte che fatto ricorso alla mediazione obbligatoria.

Il gratuito patrocinio: prima tesi

"Tribunale di Firenze 13 dicembre 2016…Omissis … L’avv. X ha presentato istanza volta ad ottenere la liquidazione del compenso per l'attività professionale svolta a favore della parte sopraindicata, ammessa al gratuito patrocinio con delibera del Consiglio dell’ordine degli Avvocati di Firenze del 7.1.2015.

Nella domanda per l’ammissione al patrocinio a spese dello Stato, l’istante aveva premesso di voler iniziare una causa di scioglimento di comunione avanti al Tribunale di Firenze, specificando che la richiesta riguardava anche la procedura di mediazione obbligatoria ex art. 5 comma 1-bis dlgs 28/2010.

Nella richiesta di liquidazione, l’istante specifica che la mediazione ha avuto esito positivo e si è conclusa con accordo; chiede pertanto che siano liquidate le spese con riferimento alle attività svolte con riferimento alla fase di mediazione obbligatoria preprocessuale, prodromica alla domanda di scioglimento di comunione.

È opportuno ricordare il provvedimento del 13.1.2015 emesso da questo Giudice, di cui per completezza si riporta la motivazione:

“[…] La questione che si pone è se il compenso professionale dell’avvocato che ha assistito una parte nella procedura di mediazione, prevista quale condizione di procedibilità della domanda giudiziale, possa essere posto a carico dello Stato.

Va premesso che la questione non è espressamente affrontata nella disciplina in materia di mediazione.

L’art. 17 D. Lgs. 28/2010, al comma 5-bis, infatti, prevede che quando la mediazione è condizione di procedibilità della domanda ai sensi dell’art. 5, comma 1 bis ovvero è disposta dal giudice ai sensi dell’art. 5 comma 2, all’organismo non sia dovuta nessuna indennità dalla parte che si trovi nelle condizioni per l’ammissione al patrocinio a spese dello stato ai sensi dell’art. 76 del t.u. sulle spese di giustizia (d.P.R. n. 115/2002).

A tal fine la parte è tenuta a depositare presso l’organismo una dichiarazione sostitutiva dell’atto di notorietà, nonché a produrre la documentazione necessaria a comprovare la veridicità di quanto dichiarato.

L'unica previsione riguarda dunque l'indennità che sarebbe dovuta all'Organismo; per quanto concerne il compenso all'avvocato, che deve obbligatoriamente assistere le parti nelle fasi di mediazione (art. 5 e 8 d.lgs. n. 28/2010), si rileva invece una lacuna che deve essere colmata in via interpretativa.

Il quadro normativo da esaminare non può che partire dall’art. 24 Cost.: dopo aver previsto, al primo comma, il diritto di agire a difesa dei propri diritti e interessi legittimi, si afferma, al secondo comma, che “la difesa è diritto inviolabile in ogni stato e grado del procedimento “.

Il terzo comma prevede inoltre che “sono assicurati ai non abbienti con appositi istituiti, i mezzi per agire e difendersi avanti ad ogni giurisdizione.”

Sul piano della legge ordinaria, l'art. 74 del D.P.R. 115/2002 prevede l'istituzione del patrocinio per il non abbiente, assicurato per il processo penale, nonché per il processo civile, amministrativo, contabile, tributario e per gli affari di volontaria giurisdizione quando le sue ragioni non risultino manifestamente infondate.

L'articolo 75 del DPR. n.115/2002 (Ambito di applicabilità) prevede al primo comma: “1. L'ammissione al patrocinio è valida per ogni grado e per ogni fase del processo e per tutte le eventuali procedure, derivate ed accidentali, comunque connesse”.
Secondo l’orientamento tradizionale, poiché le norme fanno riferimento al processo, si ritiene impossibile far rientrare nel gratuito patrocinio l’attività stragiudiziale: se anche vi fosse l'ammissione da parte del Consiglio dell’ordine, non sarebbe comunque possibile la liquidazione a spese dello Stato.

La Corte di Cassazione, con sentenza n. 24723 del 23.11.2011, ha riaffermato che il patrocinio a spese dello Stato riguarda esclusivamente la difesa in giudizio non potendo coprire l’attività stragiudiziale.

Con la pronuncia, tuttavia, la Corte, richiamando un proprio precedente, fa salva una nozione estesa di attività giudiziale perché afferma che devono considerarsi giudiziali anche quelle attività stragiudiziali che, essendo strettamente dipendenti dal mandato alla difesa, vanno considerate strumentali o complementari alle prestazioni giudiziali, cioè di quelle attività che siano svolte in esecuzione di un mandato alle liti conferito per la rappresentanza e la difesa in giudizio (sulla base di tale presupposto, nella precedente decisione, era stato riconosciuto dovuto il compenso per l'assistenza e l'attività svolta dal difensore per la transazione della controversia instaurata dal medesimo).

Anche di recente, la pronuncia della S.C. del 19 aprile 2013, n. 9529 riconferma l'orientamento ricordato: l'attività professionale di natura stragiudiziale che l'avvocato si trovi a svolgere nell'interesse del proprio assistito, non è ammessa, di regola, al patrocinio a spese dello Stato ai sensi dell'art. 85 del d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, in quanto esplicantesi fuori del processo, per cui il relativo compenso si pone a carico del cliente. Tuttavia, se tale attività venga espletata in vista di una successiva azione giudiziaria, essa è ricompresa nell'azione stessa ai fini della liquidazione a carico dello Stato ed il professionista non può chiederne il compenso al cliente ammesso al patrocinio gratuito, incorrendo altrimenti in responsabilità disciplinare.

Dal principio affermato dalla S.C., si desume dunque che l’avvocato, il quale non può chiedere il compenso al cliente pena la sanzione disciplinare, deve poterlo chiedere allo Stato.

La cauta apertura della S.C. può agevolmente essere valorizzata e coordinata con la disciplina della mediazione obbligatoria introdotta dal d.lgs. n. 28/2010 perché, nei casi in cui il procedimento giudiziario (rispetto al quale la mediazione costituisce condizione di procedibilità) inizi o prosegua, l’attività dell'avvocato ben integra la nozione lata di attività giudiziale accolta dalla Corte, ossia di attività strumentale alla prestazione giudiziale e svolta in esecuzione di un mandato alle liti conferito per la rappresentazione e difesa in giudizio.

Più problematico sembra il caso in cui la mediazione abbia avuto esito positivo: in tal caso, secondo alcuni, non avrebbe svolgimento nessuna ‘fase processuale’ nell’ambito della quale liquidare il compenso e non sarebbe possibile considerare il compenso per il difensore che ha assistito la parte in mediazione a carico dello Stato.

Un tale risultato pare paradossale dal momento che la liquidazione a spese dello Stato non troverebbe applicazione proprio quando il difensore ha svolto al meglio le sue prestazioni professionali, favorendo il raggiungimento dell’accordo in mediazione. E ciò anche se la mediazione è obbligatoria, come obbligatoria è l’assistenza dell’avvocato (art. 5, comma 1 bis e art. 8 d.lgs. n.28/2010). Ne deriverebbe un risultato irragionevole e di fatto una sorta di disincentivo rispetto ad un istituto che invece il legislatore sta cercando di promuovere in vario modo (in tale ottica si colloca anche la stessa previsione dell’obbligatorietà rispetto all’inizio del processo per un periodo limitato: art. 5, comma 1 bis, d.lgs 28/2010).

Il tema è certo delicato, anche perché liquidare a carico dello Stato un compenso non previsto da alcuna norma esporrebbe il giudice al rischio della responsabilità contabile.

Si è rilevato anche che nel verbale di conciliazione le parti e rispettivi difensori possono disciplinare l’aspetto del compenso per i legali e inoltre questi potranno avvalersi della regola della solidarietà, ribadita dall'art. 13, comma 8 della nuova legge forense (n. 247/2012).

Il problema tuttavia è duplice: sicuramente vi è l'esigenza di riconoscimento e remunerazione dell'attività difensiva: coloro che accennano alla solidarietà intendono rassicurare sulla esigibilità del credito professionale, se non dalla parte non abbiente, almeno dall'altra parte grazie al vincolo della solidarietà.

Tuttavia, in tal modo si finisce pur sempre di riversare sui privati (il difensore o la parte abbiente) un onere che dovrebbe essere sostenuto dallo Stato. Se infatti quest'ultimo mostra, con una serie di interventi, un chiaro favore verso forme non giurisdizionali di tutela nell'intento di offrire più vie di soluzione dei conflitti (dalla disciplina della mediazione a quella su arbitrato e negoziazione assistita di cui al recente d.l. n. 132/2014), anche la disciplina dell'aiuto ai non abbienti non dovrebbe più essere limitata all'aiuto nella sede giudiziaria.

Occorre allora valutare il movimento europeo di vasto respiro in cui si inscrivono gli interventi ricordati (al di là della loro concreta disciplina) e approfondire l'esegesi delle norme che vengono in campo per verificare la possibilità, già in base alla legislazione esistente, che la parte non abbiente possa usufruire dell'aiuto statale anche quando alla mediazione, dato l'esito positivo, non faccia seguito il processo.

Occorre dunque tentare di ricostruire il sistema alla luce della normativa in tema di mediazione, della Costituzione e delle fonti europee.

Un'interpretazione sistematica e teleologica delle norme richiamate induce il Giudice a ritenere che l'art. 75 sopra citato comprenda sempre la fase della mediazione obbligatoria preprocessuale. Tale conclusione (che vale anche per la mediazione demandata dal giudice ex art. 5, comma 2 d.lgs. n. 28/2010) è sostenuta dalle seguenti considerazioni.

Innanzitutto la conclusione accolta trova elementi di sostegno nell'ambito del diritto eurounitario (a partire dall’art. 47 della c.d. Carta di Nizza, secondo cui “a coloro che non dispongono di mezzi sufficienti è concesso il patrocinio a spese dello stato qualora ciò sia necessario per assicurare un accesso effettivo alla giustizia”) e della disciplina con cui l'Italia ha recepito la direttiva europea sul Legal aid, volta a migliorare l'accesso alla giustizia nelle controversie frontaliere civili (Direttiva 2002/8/CE del Consiglio del 27/1/2003). L’art. 3 di tale direttiva recita: Art. 3. Diritto al patrocinio a spese dello Stato. 1. La persona fisica, che sia parte in una controversia ai sensi della presente direttiva, ha diritto a un patrocinio adeguato a spese dello Stato che le garantisca un accesso effettivo alla giustizia in conformità delle condizioni stabilite dalla presente direttiva. Il patrocinio a spese dello Stato è considerato adeguato se garantisce: a) la consulenza legale nella fase precontenziosa al fine di giungere a una soluzione prima di intentare un'azione legale; b) l'assistenza legale e la rappresentanza in sede di giudizio, nonché l'esonero totale o parziale dalle spese processuali, comprese le spese previste all'articolo 7 e gli onorari delle persone incaricate dal giudice di compiere atti durante il procedimento. La direttiva estende il legalaid alle procedure stragiudiziali (art. 10).

Il d.lgs. 27.5.2005, n. 116, che ha recepito la direttiva, prevede all'art. 10 che “Il patrocinio è, altresì, esteso ai procedimenti stragiudiziali, alle condizioni previste dal presente decreto, qualora l'uso di tali mezzi sia previsto come obbligatorio dalla legge ovvero qualora il giudice vi abbia rinviato le parti in causa”.

Si tratta di disposizioni che concernono le controversie transfrontaliere, ma che offrono elementi ulteriori per avvalorare l’interpretazione qui accolta che estende l’aiuto legale alla fase pre-processuale, apparendo del tutto irrazionale e non conforme all’art. 3 della costituzione che il cittadino possa usufruire dell’aiuto statale per la lite transfrontaliera e non per quella domestica. E’ significativo che il Consiglio Nazionale Forense, nella circolare n. 25 del 6.12.2013, abbia espressamente richiamato la direttiva sul Legal Aid che ammette al beneficio anche le spese legali sostenute nel corso delle procedure stragiudiziali per sostenere che l’assistenza dei legali, obbligatoria per la mediazione preprocessuale e quella demandata dal giudice, debba rientrare nel patrocinio a spese dello stato.

Un ulteriore elemento, rispetto a quanto osservato, può essere tratto dalla riflessione sulla c.d. giurisdizione condizionata, che ricorre quando il legislatore impone alle parti di compiere una data attività prima di rivolgersi ai giudici, come appunto avviene con l'imposizione del tentativo preventivo di mediazione ex art. 5, comma 1 bis cit.. Il condizionamento della giurisdizione può ritenersi ammissibile in quanto non comprometta l'esperimento dell'azione giudiziaria che può essere ragionevolmente limitato, quanto all'immediatezza, se vengano imposti oneri finalizzati a salvaguardare “interessi generali”: la sentenza della Corte Cost. n. 276/2000 in tema di tentativo obbligatorio di conciliazione per le cause di lavoro, ha affermato che il tentativo in questione soddisfaceva l'interesse generale sotto due profili: da un lato, perché evitava il sovraccarico dell'apparato giudiziario, dall'altro, perché favoriva la composizione preventiva della lite che assicura alle situazioni sostanziali un soddisfacimento più immediato rispetto a quello conseguito attraverso il processo.

In sintonia con la nostra Corte costituzionale, anche l'importante decisione della Corte Giustizia eu 18.3.2010, Alassini c. Telecom (che indica le condizioni per ritenere conforme al diritto comunitario il tentativo obbligatorio di conciliazione, nella specie in tema di telecomunicazioni), afferma, tra l'altro, che “i diritti fondamentali non si configurano come prerogative assolute, ma possono soggiacere a restrizioni, a condizione che queste rispondano effettivamente ad obiettivi di interesse generale perseguiti dalla misura di cui trattasi e non costituiscano, rispetto allo scopo perseguito, un intervento sproporzionato ed inaccettabile, tale da ledere la sostanza stessa dei diritti così garantiti” (cfr. par. 63 della sentenza).

Sulla base di queste considerazioni, deve reputarsi che la connessione tra fase mediativa e processo, talmente forte da configurare una condizione di procedibilità, vada riconosciuta già in astratto. Non appare rilevante dunque che poi, in concreto, in base cioè al concreto risultato della mediazione, il processo non abbia più luogo perché divenuto inutile alla luce dell'accordo raggiunto. Questo è proprio lo scopo della connessione voluta dal legislatore, connessione che non è eliminata ma anzi esaltata proprio nel momento in cui il raggiungimento dell'accordo in mediazione rende inutile il successivo processo, assicurando quell' interesse generale di cui parla Corte cost. n. 276/2000 citata. Il senso della connessione non sta nel fatto che la mediazione sia un antecedente cronologico delle fasi processuali, ma nella funzione della mediazione: questo sistema offre alle parti di ricercare una soluzione più adeguata al loro conflitto rispetto alla rigidità della decisione giurisdizionale; inoltre, gli accordi risultanti dalla mediazione hanno maggiori probabilità di essere rispettati volontariamente e preservano più facilmente una relazione amichevole e sostenibile tra le parti.

Molteplici sono gli interessi che possono essere soddisfatti, se le parti riescono a riprendere le fila del proprio conflitto: in tutti i casi in cui questo avvenga e si concluda un accordo, la mediazione - obbligatoria - esaurisce la sua funzione rispetto al processo, che è quella di renderlo superfluo. Si tratta del massimo della connessione perché lo scopo della previsione della condizione di procedibilità non può che essere quello di un richiamo alle potenzialità dell'autonomia privata, rimesse in gioco nella sede mediativa, per evitare il procedimento giudiziario quando non sia davvero necessario.

In definitiva, la mediazione (obbligatoria) è sempre connessa e funzionale alla fase processuale anche se poi questa in concreto non abbia luogo.

Del resto, una parte della dottrina era giunta addirittura a ravvisare la natura paragiurisdizionale della fase di mediazione, rilevando come l’obbligatorietà della mediazione comportasse il suo inserimento in un unico macro-procedimento finalizzato alla tutela dei diritti (disponibili). Ed è interessante richiamare un'affermazione della Corte costituzionale, sia pure in un obiter dictum, nell'ambito di una pronuncia relativa all’impugnazione di una legge regionale veneta: la Corte ha avuto modo di affermare che il procedimento di mediazione obbligatoria previsto dal d.lgs. n. 28/2010, ''rientra nell’esercizio della funzione giudiziaria e nella sfera del diritto civile, giacché, con riferimento al caso di specie, condiziona l’esercizio del diritto di azione finalizzato al risarcimento dei danni da responsabilità civile e prevede ricadute negative per chi irragionevolmente abbia voluto instaurare un contenzioso davanti al giudice, nonostante fosse stata formulata una proposta conciliativa rivelatasi successivamente satisfattiva delle proprie ragioni”.

Pur ritenendo improprio qualificare tout court la mediazione come attività para-giurisdizionale o giudiziaria, è tuttavia corretto porre in risalto - anche - la sua stretta relazione con il processo, quando sia prevista come obbligatoria.

In definitiva, un'interpretazione sistematica teleologica delle norme richiamate induce il Giudice a ritenere che l'art. 75 cit., secondo cui l'ammissione al patrocinio è valida per ogni grado e per ogni fase del processo e per tutte le eventuali procedure, derivate ed accidentali, comunque connesse, comprenda la fase della mediazione obbligatoria pre-processuale anche quando la mediazione, per il suo esito positivo, non sia seguita dal processo. Si tratta infatti di una procedura strettamente connessa al processo, dal momento che condiziona la possibilità avviarlo (o proseguirlo, per la mediazione demandata dal giudice); d'altronde nel caso di successo della mediazione, si realizza il risultato migliore non solo per le parti, ma anche per lo stato che non deve sostenere anche le spese del giudizio.

Tale conclusione inoltre è conforme alla direttiva europea sul Legal Aid ed è costituzionalmente orientata (art. 3 Cost.), perché sarebbe irragionevole prevedere il sostegno dello stato per i casi di mediazione non conclusa con accordo e seguita da processo e negarla per i casi di mediazione, condizione di procedibilità, non seguita dal processo per l'esito positivo raggiunto. Così come sarebbe illogico riconoscere il gratuito patrocinio per le procedure derivative e accidentali e non per quelle non accidentali ma strutturalmente collegate al processo.

Da ultimo, può essere utile ricordare il tentativo della dottrina di rileggere la condizione di procedibilità (preventiva o successiva) non solo nell'ambito della giurisdizione condizionata, ma anche in una prospettiva di maggiore equilibrio tra giurisdizione e mediazione (art. 1, Dir. 2008/52). In tale prospettiva, la mediazione viene considerata strumento per favorire lo sviluppo della personalità del singolo nella comunità cui appartiene, consentendogli di confrontarsi in un contesto relazionale propiziatorio per una soluzione amichevole.

Accanto al diritto alla tutela giurisdizionale sancito dall’art. 24 Cost., diritto inviolabile della persona (ex art. 2 Cost.), andrebbe riconosciuto il diritto alla mediazione, non solo nell'ambito, tradizionalmente indicato, dell'accesso alla giustizia, ma anche quale espressione diretta dell’esigenza di sviluppo della persona nelle relazioni interpersonali e comunitarie, nell’attuazione del complementare principio di solidarietà.

Una tale visione, che ha il pregio di porre in luce l'importanza della mediazione come strumento di pacificazione sociale condivisa e non imposta, fonda il diritto alla mediazione sull'art. 2 cost.: anche tale richiamo può corroborare l'interpretazione qui accolta.

La conclusione raggiunta appare dunque l'unica conforme ai parametri costituzionali (artt. 2, 3 e 24 cost.) e adeguata al mutamento in corso dei sistemi di soluzioni delle liti: ancorare l'aiuto dello Stato solo al patrocinio in giudizio è frutto di una visione superata nella quale esclusivamente la giurisdizione statale era fonte di giustizia. Da molti anni le fonti europee ribadiscono che l'accesso alla giustizia non si riduce al ‘diritto a un tribunale’’ ma include l’accesso a procedimenti non giurisdizionali di risoluzione delle controversie che, in una prospettiva di ‘’giustizia plurale’, si pongono in rapporto di complementarietà rispetto alla giustizia giurisdizionale7.

Se oggi la tutela dei diritti non è affidata solo alle procedure giudiziarie, perché il legislatore introduce differenti metodi (da ultimo si veda il d.l. n. 132/2014 a proposito di negoziazione assistita e arbitrato), diviene un intervento indispensabile, sul piano della coerenza, ampliare l'aiuto da parte dello Stato dall’aiuto giudiziario all’aiuto giuridico, per chi ha bisogno di avere informazioni o consulenza legale o assistenza, in margine e al di fuori del processo (come nella maggior parte dei paesi europei).

Il sistema del “gratuito patrocinio” dovrà essere ripensato da chi detiene il potere legislativo alla luce della disciplina di origine comunitaria e dovranno essere riconsiderati i casi di mediazione facoltativa o di negoziazione assistita; per i casi di mediazione obbligatoria, quale quello in esame, esistono comunque spazi di interpretazione da sfruttare: il giurista ha il potere/dovere di conformare l'interpretazione delle norme esistenti alla luce dell'evoluzione dell'ordinamento per sopperire lacune o adeguare le norme alle nuove condizioni storico-sociali.

In tale prospettiva, la garanzia costituzionale del diritto di difesa inviolabile “in ogni stato e grado” (art. 24 cost.), per essere effettiva, deve contemplare anche la fase che, pur concernendo di per sé attività non giurisdizionale per la soluzione dei conflitti, è cos innestata nella giurisdizione da condizionarne le vicende: ‘in ogni stato’’ è dunque espressione che ricomprende lo stato pre-processuale o endoprocessuale che in modo obbligatorio deve essere attraversato dalle parti perché la giurisdizione possa regolarmente svolgersi. Per assicurare “ai non abbienti …. i mezzi per agire e difendersi avanti ad ogni giurisdizione” , è indispensabile riconoscere a carico dello stato anche il compenso del legale nella fase mediativa che condiziona necessariamente l’avvio del processo o la sua prosecuzione.

Tale interpretazione, che si ritiene costituzionalmente orientata, si riconnette anche all'esigenza che la mediazione sia effettiva e offra alle parti una reale chance di soluzione del loro conflitto: l'esclusione del riconoscimento delle spese per il compenso di avvocato solo per i casi di mediazione non conclusa da accordo si presterebbe invece a concepire la fase mediativa come una fase da attraversare necessariamente, ma solo formalmente, per approdare al più presto al processo, nell'ambito del quale anche le spese stragiudiziali potranno essere riconosciute.

Sarebbe una conclusione che sminuirebbe la funzione della mediazione, ma anche della giurisdizione, che, invece, proprio per la sua natura sussidiaria, deve potersi esplicare pienamente ed efficacemente quando è richiesto lo iusdicere, anziché essere strumentalizzata per altri obiettivi. L'interpretazione adottata è inoltre l'unica che riconosce la delicata funzione di assistenza dell'avvocato della parte in mediazione, funzione che comporta un mutamento culturale epocale per l'avvocatura rispetto ai ruoli tradizionali confinati al campo giudiziario e che deve essere adeguatamente valorizzata.

A questo riguardo, va ricordato che proprio dal ceto forense a livello europeo proviene l’importante raccomandazione sul Legal Aid, adottata dal CCBE (Consiglio degli Ordini Forensi d’Europa) nel novembre 2010, al fine di promuovere il diritto all’accesso alla giustizia anche per le persone prive di mezzi. Tra le azioni raccomandate si specifica quella di “garantire il legalaid per tutte le aree legaligiurisdizionali, risoluzione alternativa delle controversie, compresa l’assistenza di un avvocato in tutte le fasi del procedimento”.

Non è fuor di luogo rilevare che, se dalle novità introdotte dal d.l. n. 69/2013 (tra cui l'assistenza obbligatoria del difensore e la re - introduzione della mediazione obbligatoria) non devono derivare nuovi o maggiori oneri a carico della finanza pubblica (c.d. clausola di invarianza finanziaria: art. 85, comma 4, d. l. n.69/2013), l'interpretazione qui proposta appare del tutto rispondente a tale scopo: si tratta infatti di riconoscere il compenso del legale che ha assistito la parte in mediazione con esito positivo e dunque con risparmio per lo Stato rispetto alla fase processuale [...]”.

Successivamente a tale pronuncia si è espresso sulla questione anche il Tribunale di Tempio Pausania, che, con ordinanza del 19.7.2016, ha ritenuto di non poter accogliere l’istanza de iure condito.

Secondo il Tribunale mancherebbe il presupposto dell’esecuzione di un mandato alle liti conferito per la rappresentanza e la difesa in giudizio che, secondo quanto chiarito dalla Cassazione con la sentenza 24723/2011 permetterebbe di considerare giudiziali alcune attività stragiudiziali. Inoltre, la carenza della fase giudiziale farebbe ritenere che ''la mediazione (in virtù dello stesso esito positivo avuto) avrebbe anche potuto svolgersi in via informale tra le parti, senza l'indispensabile adesione a un organismo di mediazione e l'assistenza di un legale''.

Il giudice ritiene di confermare l’orientamento già espresso con l’ordinanza del 13.1.2015.

Infatti, l’argomento secondo cui sarebbe necessario che il difensore sia munito di procura alle liti non pare determinante, anche alla luce della successiva sentenza della SC n. 9529/2013 nella quale si valorizza il nesso teleologico fra l’attività stragiudiziale e la successiva azione giudiziaria. In altri termini, è sufficiente una valutazione sostanziale di strumentalità dell’attività stragiudiziale volta a comporre un conflitto in vista (secondo le espressioni della sentenza da ultimo citata) della futura ed eventuale domanda giudiziale. Inoltre, non pare condivisibile l'accenno ad una 'mediazione informale tra le parti”: a tacere di ogni altra considerazione, sembra che qui il Tribunale faccia riferimento ad una negoziazione diretta tra le parti e non alla mediazione, che presuppone invece necessariamente l'intervento del terzo: sostenere che le parti avrebbero potuto trovare l'accordo 'da sole' implica una non condivisibile svalutazione, a parere di chi scrive, della funzione del mediatore quale professionista specificamente formato per favorire la riattivazione della comunicazione tra le parti e facilitare il raggiungimento di un'intesa.

Si tratta, a veder bene, anche di una svalutazione dell'intero sistema introdotto in Italia in tema di mediazione, strutturato in modo articolato e posto sotto la vigilanza del Ministero della Giustizia.

In base a quanto osservato, l'istanza è meritevole di accoglimento.

La liquidazione deve avvenire sulla base dei parametri indicati degli artt. 18, 19, 20 e 21 del D.M. 55/2014 (attività stragiudiziale), considerando il valore medio con riduzione alla metà ai sensi dell’art. 130 D.P.R. n. 115/02. Considerando la natura dell’impegno professionale profuso da quanto emerge dalla documentazione allegata, appare congruo liquidare all’Avv. X in relazione all’attività espletata la somma di euro … omissis … per compensi (scaglione da euro 52.000,01 a 260.000,00 in base al valore della quota spettante al sig. omissis desumibile dal contratto prodotto quale doc. 5), ridotti ad euro omissis ex art. 130 cit., oltre alle spese generali pari al 7%, oltre IVA e CAP. PQM

Conferma in via definitiva l’ammissione al patrocinio a spese dello Stato di omissis nel procedimento suindicato; liquida in favore dell’Avv. X per l’attività espletata in favore di omissis nella procedura sopra indicata, euro 2.160,00 per compensi, oltre alle spese generali nella misura del 7%, oltre IVA e CAP; manda alla Cancelleria per le comunicazioni.

Firenze, 13.12.2016. Il Presidente est. Luciana Breggia".

Il gratuito patrocinio: la tesi opposta

Di segno opposto, altri Tribunali hanno negato la possibilità di ricorrere al gratuito patrocinio.

Recentemente il Trib. Roma, sent. 11/01/2018, est. Monastero, formula un’interpretazione letterale e restrittiva dell’istituto del gratuito patrocinio. In particolare si sottolinea che:

a) il procedimento di mediazione, seppur obbligatorio, non può considerarsi strumentale all’instaurazione di una controversia civile essendo finalizzato, al contrario, ad evitarla;

b) la spesa a carico dello Stato non è supportata da alcun dato normativo e, peraltro, il d.lgs. 28/2010 non prevede alcun nuovo onere a carico dello Stato;

c) la normativa in materia di controversie transfrontaliere è una normativa speciale (e quindi non estensibile per via analogica);

d) il nuovo articolo 97 Cost. impone l’equilibrio di bilancio;

e) sussiste un vincolo di solidarietà a carico delle parti in mediazione.

Sul tema, in ogni caso, ritengo assolutamente condivisibili le puntuali riflessioni svolte dalla dott.ssa Maria Giuliana Civinini, Presidente di Sezione del Tribunale di Livorno, che di seguito si riportano pedissequamente:

"Il quadro normativo è, pertanto contraddittorio; da un lato sembra stabilire, agli artt. 5 e 8, un obbligo di assistenza del difensore, dall’altro prevede chiaramente due tipologie di accordo a seconda che tutte le parti siano (“Ove tutte le parti aderenti alla mediazione siano assistite da un avvocato”) o non siano (“In tutti gli altri casi”) assistite da un difensore, con differenti modalità per l’acquisto dell’efficacia esecutiva (art. 12).

Appare preferibile ritenere che l’assistenza non sia obbligatoria, per ragioni di interpretazione sistematica, letterale e, soprattutto, costituzionalmente orientata delle norme in esame.

Sul piano letterale e sistematico, la dizione utilizzata dal legislatore e la complessiva disciplina dell’istituto (soprattutto se confrontata con gli artt. 82 a 84 e 182 c.p.c.) non sono idonei a fondare un obbligo di assistenza nel senso che la medesima sia un presupposto di validità della partecipazione al procedimento di mediazione dei soggetti in conflitto;

- si aggiunga, da un lato, che una diversa lettura (se possibile) priverebbe di significato l’istituto dell’omologa dell’accordo (non verosimile l’ipotesi di avvocato che assiste la parte nelle varie fasi di mediazione e poi si rifiuta di firmare l’accordo raggiunto grazie alla sua assistenza, l’eventuale disaccordo col cliente traducendosi in un mutamento di avvocato secondo l’id quod plerumque accidit);

- dall’altro, che le conseguenze di una disciplina che preveda l’assistenza indefettibile del difensore avrebbe conseguenze gravissime, quali il ritenere non integrata la condizione di procedibilità qualora la parte invitata in mediazione si presenti senza avvocato.

Sul piano costituzionale, l’imposizione di una sorta di ius postulandi (ulteriore allo ius intercessionis, attribuito al mediatore nei casi di mediazione obbligatoria) configurerebbe un irrazionale aggravamento del diritto di azione (non lenito, come diremo tra poco, dall’assistenza a spese dello Stato) e determinerebbe un’irragionevole diversità di disciplina rispetto allo ius postulandi vero e proprio (cfr. art. 82, 1° e 2° co c.p.c.), con violazione degli artt. 3 e 24 Cost..

Sembra altresì configurabile una violazione dell’art. 6 CEDU (e quindi degli artt. 11 e 117 Cost.) in quanto la legittimità delle limitazioni al diritto di autodifesa (e di tutela dei propri diritti in via negoziale) - come disegnate dalla Corte Costituzionale, dalla Corte di Cassazione (v. da ultimo Cass., n. 24517 del 30 ottobre 2013) e dalla stessa Corte EDU - possono valere per il processo in senso proprio ma non per una precedente fase amministrativa o mediatoria.

Sul piano del rispetto della Convenzione Europea dei Diritti dell’uomo, deve anche ricordarsi che per la Corte EDU non può aversi rappresentanza obbligatoria senza gratuito patrocinio.

In Anghel c. Italia 25 giugno 2013, afferma la Corte: “51. Non esiste un obbligo ai sensi della Convenzione di rendere disponibile il gratuito patrocinio per tutte le cause (controversie) in materia civile, giacché esiste una chiara distinzione tra la formulazione dell’articolo 6 § 3 (c), che garantisce il diritto di essere assistito gratuitamente nel procedimento penale se ricorrono determinate condizioni, e quello dell’articolo 6 § 1, che non menziona in alcun modo l’assistenza legale (si veda Del Sol c. Francia, n. 46800/99, § 21, CEDU 2002-II).

Tuttavia, nonostante l’assenza di tale clausola per le cause civili, l’articolo 6 § 1 può talvolta obbligare lo Stato ad accordare l’assistenza di un avvocato, laddove tale assistenza si dimostri indispensabile per garantire l’effettivo accesso a un tribunale perché la rappresentanza legale è resa obbligatoria, come richiesto dal diritto nazionale di alcuni Stati contraenti in vari tipi di controversie oppure perché la procedura o la causa sono particolarmente complesse (si veda Airey c. Irlanda, 9 ottobre 1979, § 26, Serie A n. 32).

Nel sottrarsi all’obbligo di accordare alle parti il gratuito patrocinio nelle cause civili, laddove ciò sia previsto dal diritto interno, lo Stato deve dare prova di diligenza, assicurando a dette parti il pieno ed effettivo godimento dei diritti tutelati dall’articolo 6 (si vedano, inter alia, Staroszczyk c. Polonia, n. 59519/00, § 129, 22 marzo 2007; Siałkowska c. Polonia, n. 8932/05, § 107, 22 marzo 2007; e Bąkowska c. Polonia, n. 33539/02, § 46, 12 gennaio 2010).

Un quadro istituzionale adeguato dovrebbe garantire agli aventi diritto una rappresentanza legale effettiva e un livello sufficiente di tutela dei loro interessi (ibidem § 47). In alcuni casi, laddove siano portati all’attenzione delle autorità competenti problemi di rappresentanza legale, lo Stato dovrebbe attivarsi e non restare passivo. Dipende dalle circostanze del caso specifico se le autorità interessate debbano attivarsi e se, considerando il procedimento nel suo complesso, l’assistenza legale possa essere ritenuta “effettiva e concreta”. L’assegnazione di un avvocato affinché rappresenti una parte nel procedimento non garantisce di per sé che l’assistenza sia effettiva (si veda, ad esempio, Siałkowska, sopra citata,§ 100). È altresì essenziale che il sistema del gratuito patrocinio offra all’individuo garanzie sostanziali, allo scopo di tutelare dall’arbitrio coloro che vi fanno ricorso (Gnahoré c. Francia, n. 40031/98, § 38, CEDU 2000 IX).” (la sentenza può leggersi a questo link; si veda anche Siwiec v. Poland, 3 ottobre 2012).

Il chiaro orientamento della Corte non potrebbe essere contrastato affermando che si è in presenza di assistenza obbligatoria e non di rappresentanza (legale) obbligatoria. La sostanza non muta, salvo ci si voglia spostare dal piano procedimentale a quello sostanziale, configurando una sorta di semi-incapacità della parte a curare i propri interessi, il che configurerebbe una lesione dell’art. 8 CEDU".

Altrettanto illuminanti sono le riflessioni svolte da Lorenzo Leva su il Corriere giuridico n. 7/2014 (pagg. 949 - 956) nell’articolo:"Mediazione civile e commerciale - Mediazione ed assistenza (non imperativa) dell’avvocato".

"omissis … le disposizioni sull’apparente obbligo della cd. assistenza a mezzo di avvocato appaiono davvero inspiegabili.

In merito, la circolare del 27 novembre 2013 prot. n. 168322 del Dipartimento per gli affari di giustizia, Ufficio III, del Ministero della Giustizia, che ha fornito i “primi chiarimenti” sulla mediazione civile reintrodotta dal cd. Decreto del fare, ha solo laconicamente precisato che: «[…] l’assistenza dell’avvocato è obbligatoria esclusivamente nelle ipotesi quella disposta dal giudice ex art. 5 comma 2), ma non anche nelle ipotesi di mediazione facoltativa».

A parere di chi scrive, dal punto di vista sia strettamente giuridico, che politico ed economico, la riedizione, per così dire, dell’istituto della mediazione obbligatoria (dopo lo stop inferto dalla sentenza della Corte costituzionale del 6 dicembre 2012 n. 272, che ha saputo vedere un assai particolare vizio di forma nella procedura legislativa, consistente in una presunta carenza di legge delega ai sensi degli artt. 76 e 77 Cost.), unitamente all’introduzione dell’obbligo - riteniamo più apparente che giuridicamente esistente - della assistenza a mezzo di un avvocato, non possiede alcuna apprezzabile motivazione di opportunità e lascia davvero ammutoliti e molto perplessi.

Mentre, nella prima versione del decreto, si legge di una non meglio precisata obbligatoria presenza dell’avvocato all’atto della sola redazione dell’accordo finale di mediazione, nella versione convertita in legge del decreto, addirittura in più parti del testo normativo, in maniera inutilmente ridondante, compare una presunta forma di obbligatorietà, precedentemente invero ai più sconosciuta nelle attività stragiudiziali, di “assistenza” dell’avvocato, in tutte le fasi della procedura di mediazione.

Ma perché ? Cosa significa ? In primis, leggiamo gli articoli rilevanti.

L’art. 5, comma 1 bis, d.lgs n. 28 del 2010, modificato, stabilisce che: «Chi intende esercitare in giudizio un’azione […] è tenuto, assistito dall’avvocato, preliminarmente a esperire il procedimento di mediazione […]».

L’art. 8, comma 1, parte seconda, d.lgs n. 28 cit. prevede che: «Al primo incontro e agli incontri successivi, fino al termine della procedura, le parti devono partecipare con l’assistenza dell’avvocato […]».

L’art. 8, comma 1, parte terza, d.lgs n. 28 cit. ancora precisa che: «Il mediatore […] invita le parti e i loro avvocati a esprimersi sulla possibilità di iniziare la procedura di mediazione e, nel caso positivo, procede allo svolgimento».

Insomma, l’avvocato, quale ulteriore “assistente” delle parti, le quali - va ricordato - sono già di per sé “assistite” dal mediatore, tale essendo la funzione precipua di questa figura giuridica di facilitatore e di ausilio al raggiungimento di un “accordo amichevole”, dovrebbe intervenire fin dall’inizio e poi negli incontri successivi della procedura di mediazione.

Addirittura insieme alle parti, è richiesto all’avvocato di esprimersi sulla stessa “possibilità di iniziare la procedura di mediazione”, il che costituisce un modo come un altro per richiedere, per legge, il compimento di un atto di vera e propria vaticinazione, in quanto non si riesce a comprendere come sia possibile, se non si inizia appunto a discutere della res dubia, appurare se sussista o meno una possibilità di composizione amichevole.

E, d’altro canto, come si può spiegare l’obbligatorietà di assistenza nelle procedure stragiudiziali, ossia nell’ambito di una procedura semplificata ed informale qual è la mediazione civile, che finisce per essere un vero e proprio obbligo di rappresentanza e patrocinio dell’avvocato, il quale, invece, nelle procedure giurisdizionali, si giustifica esclusivamente in ragione della asserita (in verità anche qui in via tralaticia) tecnicità del processo ?

Non v’è chi non veda come sia stata effettuata una “forzatura” al sistema, che ha il solo scopo di tentare di trasformare quello della mediazione, in tal modo sì in un autentico inutile passaggio procedurale in più prima di poter incardinare il processo.

Al contrario, la mediazione ha né più né meno che lo scopo di deflazionare il processo da tutte quelle forme di contenzioso, che possono essere, una volta sgombrato il campo da equivoci o da carenze informative iniziali, di varia natura, facilmente ricomposte, con economia di spesa pubblica e di spesa per le parti, davanti ad un mediatore professionale, che chiarisca i termini delle questioni dubbie, che sono poste in gioco e che hanno innescato tra le parti il principio della controversia. Inoltre, la mediazione ha la funzione di “stemperare” gli animi e di ricondurre su un piano di ragionevolezza le pretese vicendevoli.

Ergo, la mediazione non si svolge su un terreno prettamente giuridico, per il quale si potrebbe ammettere la necessità del patrocinio dell’avvocato, ma su un campo ben diverso, che ha la funzione di individuare, attraverso l’analisi delle posizioni delle parti, viste più nell’ottica della praticità economica e sostanziale, la soluzione ottimale che appare proficua a tutti i contendenti in una logica che è sostanzialmente transattiva.

L’esame giuridico delle questioni non costituisce mai il fulcro della procedura di mediazione, ma ne rimane, per così dire, a latere o in maniera sottesa; rappresenta al più un dato di partenza o che comunque può essere considerato nella dinamica della discussione delle questioni incerte, ma mai costituisce il fine proprio della ricerca della soluzione che, per definizione, deve essere “amichevole” e profittevole per tutte le posizioni in gioco.

Semmai la mediazione suole avvicinarsi più al concetto di strumento per la ricerca dell’equità del caso concreto, che a quello di meccanismo di elaborazione di una soluzione conforme al diritto scritto.

Non a caso, i mediatori, nella ricerca del consenso delle parti, utilizzano strumenti e tecniche di comunicazione ad hoc, anche di tipo psicologico, creando una empatia tra i soggetti e conducendoli verso una soluzione gradita ad entrambe le posizioni poste in speculazione dialettica, cercando di evidenziare i vantaggi della soluzione negoziata ed immediata della controversia, rispetto al conflitto prolungato nel tempo nel processo, con gli oneri ed i rischi che ne derivano.

Per altro verso, va ricordato che, nel costume giuridico dei Paesi più avanzati, il raggiungimento di una soluzione negoziata tra le parti viene ritenuta preferibile rispetto alla soluzione imposta unilateralmente dal Giudice, in quanto, anche per il cd. vincitore, comunque voluta e non subita. Inoltre, stante l’alea del giudizio, appare più utile un buon accordo (con poche spese), che tronca qualsiasi questione pendente, che una sentenza autoritaria (con molte spese), che - l’esperienza insegna - può ben lasciare insoddisfatti e strascichi di carattere esecutivo.

Nell’analisi economica del diritto, è poi noto che i costi del conflitto, dal quale può scaturire anche una decisione (tardiva) aleatoria e non voluta, superano, quasi sempre, i costi di una transazione (tempestiva), anche non ottimale, ma comunque partecipata e voluta. Non risulta, infine, chiaro nel testo normativo quale sia - se mai ce ne possa essere una, per una procedura informale e stragiudiziale - la sanzione, in caso di mancata assistenza dell’avvocato per una o tutte le parti partecipanti alla procedura.

Può ipotizzarsi una qualche forma di nullità ? Noi crediamo assolutamente di no, perché, in primis, la legge non lo prevede espressamente (né mai avrebbe potuto farlo) e, in secundis, perché, per l’appunto, la procedura di mediazione è volta a perfezionare un incontro di volontà libere tra le parti, che si traduce in un atto negoziale di composizione della disputa, che poi viene dalle stesse formalizzato in un atto a cura del mediatore, che è ex se un soggetto professionalizzato riconosciuto dall’ordinamento. E ciò deve apparire sufficiente.

Non si può ritenere, per converso, che i soggetti contraddittori nella procedura di mediazione siano stati implicitamente qualificati dalla legge alla stregua di persone, sotto tale profilo, incapaci di agire e poste sotto la tutela di altri, ossia degli avvocati, che dovrebbero prestare assistenza !

Il soggetto privato che adisca l’Organismo di mediazione con una propria domanda formulata senza l’assistenza di un avvocato o magari dichiarando espressamente di non volerne essere assistito presenta comunque una istanza di attivazione della procedura di mediazione valida che deve essere trattata, poiché nessuna norma espressa lo impedisce.

La lettera del novellato art. 12 d.lgs n. 28 cit. poi prevede che l’accordo raggiunto dalle parti, in sede di mediazione, possa costituire titolo esecutivo, in base a due formule procedurali alternative:

1. «Ove tutte le parti aderenti alla mediazione siano assistite da un avvocato, l’accordo che sia stato sottoscritto dalle parti e dagli stessi avvocati costituisce titolo esecutivo […]. Gli avvocati attestano e certificano la conformità dell’accordo alle norme imperative e all’ordine pubblico»;

2. «In tutti gli altri casi l’accordo allegato al verbale è omologato, su istanza di parte, con decreto del presidente del tribunale, previo accertamento della regolarità formale e del rispetto delle norme imperative e dell’ordine pubblico».

In tal modo, nonostante l’indispensabilità degli avvocati venga “proclamata” in diverse disposizioni, la stessa non trova alcuna sanzione espressa in termini di nullità della procedura, il cui raggiunto accordo (negoziale) anzi supera ogni questione e può ben essere omologato, su istanza di parte, con decreto del Presidente del Tribunale, con la efficacia propria del titolo esecutivo.

D’altro canto, appare pacifico che il legislatore non possa irrompere nell’autonomia dei privati, che raggiungano un accordo negoziale transattivo, seppure facilitato da un mediatore, nella composizione dei propri contrapposti interessi.

Il ricorso all’assistenza dell’avvocato non può, dunque, che essere considerato come facoltativo e mai può ritenersi imposto dalla legge in modo imperativo.

Il principio fondamentale dell’autodifesa nel processo.

Che le disposizioni sul presunto obbligo della cd. “assistenza” a mezzo di avvocato, all’interno di una procedura di tipo stragiudiziale, come è eminentemente quella della mediazione, rappresentino vere e proprie “norme abnormi”, lo si vede anche in relazione al principio dell’autodifesa nel processo, pure sancito dall’art. 6 della legge 4 agosto 1955 n. 848 contenente la “Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali”, firmata a Roma il 4 novembre 1950 (e Protocollo addizionale firmato a Parigi il 20 marzo 1952).

E difatti il citato art. 6, rubricato “Diritto ad un processo equo” dopo aver descritto i canoni basilari di qualsivoglia procedura giurisdizionale informata alla salvaguardia dei cd. diritti umani (per altro rinsaldati nel corpo dell’art. 111 Cost., dalla legge cost. 23 novembre 1999 n. 2), letteralmente, ha previsto, al co. 3, lett. c), che: «Ogni accusato ha segnatamente diritto a: […] c) difendersi da sé o avere l’assistenza di un difensore di propria scelta […]».

La C.E.D.U., peraltro, è oggetto di puntuale richiamo anche all’interno del sistema del diritto comunitario, dall’art. 6, co. 2 e 3, TUE (dopo il trattato di Lisbona), che così dispone: «2. L’Unione aderisce alla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali […].

3. I diritti fondamentali, garantiti dalla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali e risultanti dalle tradizioni costituzionali comuni agli Stati membri, fanno parte del diritto dell'Unione in quanto principi generali».

Per altro verso, va ricordato che lo stesso art. 6,comma 1, TUE (dopo il trattato di Lisbona) ha statuito che: «L’Unione riconosce i diritti, le libertà e i principi sanciti nella Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea del 7 dicembre 2000, adottata il 12 dicembre 2007 a Strasburgo, che ha lo stesso valore giuridico dei trattati […]».

In particolare, la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, solennemente proclamata una prima volta il 7 dicembre 2000 a Nizza ed una seconda volta, in una versione modificata, il 12 dicembre 2007 a Strasburgo dal Parlamento, dal Consiglio e dalla Commissione, ha stabilito, all’art 47, comma 2, claris verbis che: «Ogni persona ha diritto a che la sua causa sia esaminata equamente, pubblicamente ed entro un termine ragionevole da un giudice indipendente e imparziale, precostituito per legge. Ogni persona ha la facoltà di farsi consigliare, difendere e rappresentare», con ciò ribadendosi, per l’appunto, la “facoltà” della rappresentanza, patrocinio o difesa tecnica nel processo, che dir si voglia, a mezzo di un difensore abilitato e giammai l’obbligo.

Essendo la carta de qua, stando alla stessa enunciazione solenne fatta nel preambolo, la sintesi di principi comunitari ed internazionali, nonché delle tradizioni costituzionali degli Stati membri dell’U.E., la facoltà di autodifesa costituisce un predicato essenziale del “diritto alla difesa” e va riconosciuto soprattutto laddove non sia neanche esperibile la motivazione della necessaria preparazione tecnica ad azionare i poteri processuali e ciò a maggior ragione nell’ambito di una procedura stragiudiziale.

Inoltre, non va sottaciuto come l’incipit dell’art. 117, comma 1, Cost., novellato dalla l. cost. 18 ottobre 2001 n. 3, abbia, nel prevedere che la potestà legislativa dello Stato e delle Regioni sia esercitata nel rispetto dei vincoli posti dall’ordinamento comunitario e dagli obblighi internazionali, recte introdotto un sistema espresso di recepimento degli accordi internazionali e del diritto derivato da questi, per cui a fortiori - ove mai vi fossero dubbi di qualche genere - la disciplina di cui alla C.E.D.U. ed alla cd. Carta di Nizza, in ordine rispettivamente al diritto di “difendersi da sé” ed alla mera “facoltà” di nominare un avvocato, fa parte del diritto internazionale e comunitario, che ex se deve prevalere sul diritto processuale interno.

Va infatti ricordato che, in base alle recenti pronunce della Corte costituzionale n. 348 e n. 349 del 24 ottobre 2007 (10), le norme C.E.D.U. entrano a far parte del nostro ordinamento come norme interposte, che integrano il parametro costituzionale. In sostanza, il contenuto del principio di intangibilità del diritto alla difesa, correlato al “giusto processo” di cui all’art. 111 Cost., va ricostruito attraverso l’interpretazione sistematica dell’art. 6, comma 2, della Convenzione europea dei diritti dell’Uomo del 1950 e dell’art. 47, comma 2, della Carta dei diritti fondamentali dell’U.E. del 2007, che, in modo abbastanza chiaro, riconoscono il diritto all’autodifesa. (11)

Per quanto detto finora, appare oltremodo evidente la dissonanza tra l’ordinamento interno processuale e le regole costituzionali, comunitarie e internazionali, come da noi ricostruite, in ordine alla questione della libertà di autodifesa nel processo e, a fortiori, nelle procedure stragiudiziali. Per cui, le norme dei codici di procedura e delle altre leggi, interpretate nel senso che impongano l’obbligo di rappresentanza, patrocinio o difesa, a mezzo di avvocato, appaiono costituzionalmente illegittime".

Sicuramente utili a comprendere la problematica in esame sono, inoltre, le riflessioni svolte da Paolo Tesauro, sia pure prima dell’”apparente” introduzione dell’obbligatorietà della difesa, nel suo articolo pubblicato su “Innovazione e diritto”, Università degli Studi di Napoli, anno 2010, pubblicazione n. 6, articolo n.8.

"Al fine di inquadrare il tema relativo al diritto di difesa nel nuovo procedimento di mediazione, introdotto con D. Lgs. del 4 marzo 2010 n. 28, si impone una corretta individuazione del dettato costituzionale di riferimento.

L’articolo 24 Cost., 2° comma, sancisce che “la difesa è diritto inviolabile in ogni stato e grado del giudizio”.

Tale norma viene decodificata da concorde dottrina, come una garanzia dalla duplice portata; da un lato, la tutela per la parte di far valere in giudizio le proprie ragioni e pretese rileva sotto il profilo delle finalità ultime della previsione costituzionale, dall’altro l’assistenza tecnico-legale attiene, invece, alle modalità di esercizio di quanto disposto dall’art. 24 Cost..

A ciò si aggiunga il richiamo agli artt. 3 e 111 Cost.. Il principio di uguaglianza formale e sostanziale (art. 3) trova realizzazione nel prevenire e scongiurare la possibilità di discriminazioni e disuguaglianze anche sul piano del diritto alla difesa, ed in particolare, in questo senso, va letto il 3° comma dell’art. 24 Cost. che assicura “ai non abbienti con appositi istituti, i mezzi per agire e difendersi davanti ad ogni giurisdizione”.

Il principio del giusto processo, relativamente al 1° e al 2° comma, art. 111 Cost., impone l’attuazione della giurisdizione, secondo i principi del “contraddittorio tra le parti, in condizioni di parità, davanti ad un giudice terzo ed imparziale” e della ragionevole durata, demandando al legislatore ordinario tale compito.

Questo dettato normativo, in realtà, recepisce l’art. 14 n. 1 del Patto internazionale sui diritti civili e politici e soprattutto l’art. 6 n. 1 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo (CEDU).

E’ qui utile precisare, inoltre, che nell’art. 47, 2° comma, della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea (La Carta dei diritti fondamentali è stata approvata a Nizza il 18 dic. 2000 e riconosciuta nell’’art. 6 del Trattato sull’Unione Europea, così come modificato dal Trattato di Lisbona del 2007 e successivamente ratificato dal Parlamento italiano nel 2008. Il valore giuridico della Carta è espressamente parificato a quello dei trattati e dunque vincolante per i giudici nazionali) è sancito che “ogni individuo ha la facoltà di farsi consigliare, difendere e rappresentare”.

La volontà normativa, a livello europeo, fornisce una lettura del diritto certamente invertito rispetto a quanto emerge dal dettato costituzionale italiano, più preoccupato, quest’ultimo, ad impedire che si ripetessero le violazioni alla difesa con persecuzioni e torture tipiche, soprattutto, del regime fascista.

La facoltà prevista dall’art. 47 cit., trova il fondamento nella possibilità che la parte possa liberamente scegliere di avvalersi o meno dell’assistenza tecnico-professionale, restando ferme le garanzie per i non abbienti.

In Italia, nel panorama giurisprudenziale della Corte Costituzionale, si individuano significative pronunce che, negli anni, hanno qualificato la portata del diritto di difesa.

Il giudice delle leggi, chiamato a pronunciarsi sulla garanzia della difesa nei procedimenti, ha precisato che “speculare alla inviolabilità del diritto di difesa è la irrinunciabilità di esso, quali ne siano le concrete modalità di esercizio”.

In particolare, il tema della qualificazione del diritto inviolabile alla difesa nel senso della irrinunciabilità, affermato dalla sentenza da ultimo richiamata, è la conseguenza di un iter giurisprudenziale iniziato con alcune precedenti pronunce.

L’esigenza di garantire l’esercizio della difesa in ogni stato e grado di qualunque procedimento e davanti a qualunque magistratura (La Corte Costituzionale, nella sentenza 125/1979 (3 ott.) afferma che “il generale ambito di applicabilità di questa norma ben venne chiarito nella discussione avanti l’Assemblea Costituente (seduta del 15 aprile 1947) allorquando l’on.Tupini, presidente della I sottocommissione, affermò che tenuto conto degli abusi, delle incertezze e delle deficienze che hanno vulnerato nel passato l’istituto della difesa, specie per quanto attiene alla sua esclusione dai vari stati e gradi del processo giurisdizionale si volle con una norma chiara, assoluta, garantirne la presenza e l’esperimento attivo in tutti gli stati del giudizio e davanti a qualunque magistratura”) è emersa fin dalle prime valutazioni dei padri fondatori che hanno individuato nel testo dell’art. 24 un’assoluta garanzia per tutti i cittadini di poter tutelare in giudizio le proprie ragioni.

La Corte Costituzionale ben presto ha anche precisato che il “diritto inviolabile di difesa, proprio anche per la portata generale della norma che la contiene, non si accompagna, nel testo costituzionale, l’indicazione, dotata di pari forza cogente, del o dei modi di esercizio di quel medesimo diritto.

Con la conseguenza che è consentito al legislatore, valutando la diversa struttura dei procedimenti, i diritti e gli interessi in gioco, le peculiari finalità dei vari stati e gradi della procedura, dettare specifiche modalità per l’esercizio del diritto di difesa, alla tassativa condizione, però, che esso venga, nelle differenti situazioni processuali, effettivamente garantito a tutti su un piano di uguaglianza.

Per il nostro ordinamento positivo, il diritto di difesa nei procedimenti giurisdizionali si esercita, di regola, mediante l’attività o con l’assistenza del difensore, dotato di specifica qualificazione professionale essendo limitata a controversie ritenute di minore importanza ovvero a procedimenti penali per reati cosiddetti bagattellari la possibilità che la difesa venga esercitata esclusivamente dalla parte”.

Pertanto, dalla giurisprudenza costituzionale emerge chiaramente che, fermo restando l’inviolabilità, intesa anche nel senso di irrinunciabilità, del diritto di difesa, esso va specificato, nelle modalità di esercizio, ad opera esclusiva del legislatore che, considerando le peculiarità egli interessi in gioco nei vari stati e gradi del procedimento, sarà chiamato a garantir nel’attuazione a tutti i cittadini, nel rispetto del principio di uguaglianza. Il legislatore, quindi, valuterà l’opportunità di prevedere o meno l’obbligatorietà dell’assistenza tecnica, sempre che la parte processuale sia posta nelle possibilità di far valere le proprie ragioni nel procedimento. … omissis …

Se abbonda la giurisprudenza sul tema della difesa tecnica nel processo penale, sono di gran numero inferiori gli interventi della Corte in materia civile ma non mancano interessanti spunti di riflessione.

Sul diritto di difesa tecnica rilevante è la pronuncia in tema di opposizione al decreto di adottabilità, che, nonostante la brevità del termine di 30 giorni, fissato a pena di decadenza, garantisce, secondo la Corte Costituzionale, l’esercizio della difesa, anche per il tramite del difensore d’ufficio, a tutela di un diritto inviolabile ed indisponile, quale quello del mantenimento del legame da parte del minore con la famiglia di origine. Tale fattispecie, quindi, attiene alla sfera dei diritti indisponibili tenuto conto che ben può essere ricondotta nel perimetro normativo dell’art. 2 Cost; i diritti inviolabili sono attribuiti all’uomo non solo come singolo ma anche nelle formazioni sociali “ove si svolge la sua personalità”, e, dunque, anche con riferimento alla famiglia.

Per il settore dei diritti disponibili, invece, l’impianto interpretativo seguito dal giudice delle leggi è quello di estendere, anche per il processo civile, il principio secondo il quale l’inviolabilità del diritto di difesa deve trovare attuazione secondo le modalità di esercizio che il legislatore ritiene più opportune.

Utile, a tal fine, è il richiamo, all’art. 82 c.p.c., 1° e 2° comma, nella parte in cui prevede esplicitamente, a seguito della riforma attuata con L. 374/1991, che “davanti al giudice di pace le parti possono stare in giudizio personalmente nelle cause il cui valore non eccede lire un milione (516,46 euro). Negli altri casi, le parti non possono stare in giudizio se non col ministero o con l’assistenza di un difensore. Il giudice di pace tuttavia, in considerazione della natura ed entità della causa, con decreto, emesso anche su istanza verbale della parte, può autorizzarla a stare in giudizio di persona”.

Significative le linee guida fissate dalla giurisprudenza della Corte Costituzionale, che, chiamata a pronunciarsi più volte su tale normativa, legittima la difesa personale precisando come la legge ordinaria possa subordinare a modalità particolari l’esercizio del diritto di difesa, con la limitazione che la sua esplicazione non ne risulti impossibile o estremamente difficile.

La finalità del legislatore è quella di garantire alla parte la possibilità di far valere le proprie ragioni nel rispetto del contraddittorio, valutando se ammettere o non ammettere (come nei casi previsti dall’art. 82 c.p.c.) l’obbligatorietà della difesa tecnica".

In sostanza, mentre in Italia il diritto di difesa è tutelato direttamente dalla Costituzione ma la sua concreta modalità di attuazione, attraverso l’assistenza tecnica del legale, è garantita da una riserva di legge invece, in ambito comunitario, la difesa tecnica è una facoltà.

Difatti, nel nostro Paese attualmente è prevista l’assistenza legale esclusivamente in ambito processuale, salve le eccezioni di volta in volta previste.

Le mie conclusioni

In ambito stragiudiziale e, segnatamente, con la mediazione civile, a mio avviso, per le argomentazioni sopra elencate, ritengo, quindi, non sia obbligatoria la presenza dell’avvocato.

In sintesi i motivi che militano a favore della tesi della non obbligatorietà sono i seguenti:

1. il dettato normativo (art. 12 D. Lgs. 28/2010) non prevede espressamente alcuna conseguenza negativa laddove la parte non si faccia assistere dall’avvocato in mediazione;

2. il D.L. 69/2013 che ha reintrodotto la mediazione obbligatoria dopo che la Corte costituzionale, con la sentenza n. 272 del 06.12.2012, l’aveva dichiarata incostituzionale, prevede all’art. . 85, co. 4° la c.d. “clausola di invarianza finanziaria” in virtù della quale dalle novità introdotte dalla normativa richiamata non devono derivare nuovo o maggiori oneri a carico della finanza pubblica;

3. il d. lgs. 27.5.2005, n. 116, che ha recepito la direttiva sul Legal aid, volta a migliorare l'accesso alla giustizia nelle controversie transfrontaliere civili (Direttiva 2002/8/CE del Consiglio del 27/1/2003), prevede all'art. 10 che “Il patrocinio è, altresì, esteso ai procedimenti stragiudiziali, alle condizioni previste dal presente decreto, qualora l'uso di tali mezzi sia previsto come obbligatorio dalla legge ovvero qualora il giudice vi abbia rinviato le parti in causa” ma tale norma riguarda soltanto ed esclusivamente le liti transfontaliere ed essendo una norma speciale non può essere interpretata estensivamente;

4. gli artt. 81 (“Lo Stato assicura l’equilibrio tra le entrate e le spese del proprio bilancio, tenendo conto delle fasi avverse e delle fasi favorevoli del ciclo economico. Il ricorso all'indebitamento è consentito solo al fine di considerare gli effetti del ciclo economico e, previa autorizzazione delle Camere adottata a maggioranza assoluta dei rispettivi componenti, al verificarsi di eventi eccezionali. Ogni legge che importi nuovi o maggiori oneri provvede ai mezzi per farvi fronte … omissis - come sostituito dall'articolo 1 della legge costituzionale 20 aprile 2012, n.1) e 97 della Costituzione (Le pubbliche amministrazioni, in coerenza con l'ordinamento dell'Unione europea, assicurano l'equilibrio dei bilanci e la sostenibilità del debito pubblico … - omissis - come modificato dall'articolo 2 della legge costituzionale 20 aprile 2012, n.1) impongono una interpretazione costituzionalmente orientata della normativa sulla mediazione, ragion per cui una esegesi che imporrebbe la necessaria presenza dell’avvocato e la conseguente necessità del gratuito patrocinio sarebbe in conflitto con le norme costituzionali appena richiamate;

5. come riconosce lo stesso Tribunale di Firenze del 16.12.2016:"La questione che si pone è se il compenso professionale dell’avvocato che ha assistito una parte nella procedura di mediazione, prevista quale condizione di procedibilità della domanda giudiziale, possa essere posto a carico dello Stato. Va premesso che la questione non è espressamente affrontata nella disciplina in materia di mediazione. L’art. 17 D. Lgs. 28/2010, al comma 5-bis, infatti, prevede che quando la mediazione è condizione di procedibilità della domanda ai sensi dell’art. 5, comma 1 bis ovvero è disposta dal giudice ai sensi dell’art. 5 comma 2, all’organismo non sia dovuta nessuna indennità dalla parte che si trovi nelle condizioni per l’ammissione al patrocinio a spese dello stato ai sensi dell’art. 76 del t.u. sulle spese di giustizia (d.P.R. n. 115/2002). A tal fine la parte è tenuta a depositare presso l’organismo una dichiarazione sostitutiva dell’atto di notorietà, nonché a produrre la documentazione necessaria a comprovare la veridicità di quanto dichiarato. L'unica previsione riguarda dunque l'indennità che sarebbe dovuta all'Organismo; per quanto concerne il compenso all'avvocato, che deve obbligatoriamente assistere le parti nelle fasi di mediazione (art. 5 e 8 d.lgs. n. 28/2010), si rileva invece una lacuna che deve essere colmata in via interpretativa".

Il dettato normativo, pertanto, non afferma che la presenza dell’avvocato sia necessaria anzi si limita a prevedere l’esenzione dalle spese di mediazione per coloro che si trovino nelle condizioni per beneficiare dell’ammissione al patrocinio a spese dello Stato;

6. la Corte di Giustizia Europea, con la sentenza C-75/16 del 14 giugno 2017, ha ritenuto che l'adozione da parte degli Stati Membri di una normativa interna che preveda, nelle controversie riguardanti i consumatori (B2C -Business to Consumer), il ricorso alla mediazione obbligatoria quale condizione di procedibilità della domanda giudiziale possa ritenersi compatibile con il diritto dell'Unione Europea soltanto a condizione che non venga imposta l'assistenza necessaria di un legale e il consumatore possa ritirarsi dalla procedura in qualsiasi momento, senza dover addurre alcuna giustificazione a fondamento della propria scelta.

In particolare, come evidenziato da Valentina Morgante, Avvocato presso lo Studio BM&A, Dottore di ricerca in "Human Person, Liabilities and Contracts", Scuola Sant'Anna di Pisa, nell’articolo pubblicato, la Corte di Giustizia, su rinvio pregiudiziale del Tribunale di Verona, era stata chiamata a decidere in ordine al rapporto tra il sistema di ADR, previsto per le controversie dei consumatori dal D. Lgs. 130/2015 (attuativo in Italia della direttiva 2013/11/UE del 21 maggio 2013) e le norme in tema di mediazione che nel nostro ordinamento impongono nelle controversie civili tra professionista e consumatore - a pena di improcedibilità del giudizio di merito - il preventivo esperimento del procedimento di mediazione, caratterizzato dall'assistenza necessaria di un avvocato e senza possibilità per le parti di ritirarsi se non per giustificato motivo.

Nel richiamato processo già l'Avvocato Generale aveva sostenuto l'incompatibilità tra la normativa italiana dettata dagli articoli 5, comma 1-bis e 8 comma 1 del decreto legislativo n. 28/2010 - che prevedono in via generale l'assistenza obbligatoria da parte di un avvocato nel corso del procedimento di mediazione - e l'articolo 8, lettera b) della direttiva 2013/11/UE, che esclude invece espressamente che gli Stati possano obbligare le parti a farsi assistere da un avvocato nel corso di una mediazione di una lite, quando questa sia insorta tra un professionista e un consumatore.

L'Avvocato Generale aveva, quindi, nelle proprie conclusioni ritenuto che l'articolo 8, comma 4-bis del decreto legislativo n. 28/2010, nella parte in cui esso non consente, se non in presenza di giustificato motivo, al consumatore di ritirarsi dal procedimento di mediazione senza subirne conseguenze sfavorevoli nell'ambito del successivo procedimento giudiziario, contrastasse con l'articolo 9, paragrafo 2, lettera a) della direttiva 2 2013/11/UE che sancisce invece la libertà totale del consumatore di ritirarsi dalla procedura in qualsiasi momento, anche per motivi puramente soggettivi.

Nella sentenza la Corte, in via preliminare, ha precisato che la direttiva 2008/52/CE del 21 maggio 2008 trova applicazione alle sole controversie transfrontaliere, mentre nelle controversie prive di elementi di transnazionalità (esaminata nel giudizio a quo) la compatibilità tra normativa interna e diritto comunitario va verificata facendo riferimento alla direttiva 2013/11/UE del 21 maggio 2013.

Sulla base di tale premessa, la Corte ha chiarito che la natura "volontaria" del ricorso a procedure di ADR postulata dalla direttiva 2013/11/UE, cui nel nostro ordinamento è stata data attuazione con il D.Lgs. 130/2015, attiene non alla libertà delle parti di ricorrere o meno alla procedura, bensì al fatto che le parti - ed in particolare la parte che vi partecipi in qualità di Consumatore - possano gestire la procedura in autonomia, senza l'assistenza necessaria di un avvocato, e porvi fine in qualsiasi momento, anche senza giustificato motivo.

Secondo i Giudici di Lussemburgo, dunque, le norme di cui agli artt. articoli 5 comma 1-bis, 8 comma 1 e 8 comma 4-bis del decreto legislativo n. 28/2010 contrastano in effetti l'effettività del diritto di accesso al giudice sancito dall'articolo 1 della direttiva 2013/11 nella parte in cui impongono al Consumatore che prende parte a una procedura ADR di essere assistito necessariamente da un avvocato e prevedono, sotto altro profilo, che dal ritiro del consumatore dalla procedura ADR, con o senza un giustificato motivo, possano derivare conseguenze processuali sfavorevoli nei suoi confronti nelle successive fasi della controversia.

In relazione a quest'ultimo aspetto, tuttavia, la Corte precisa che, purché il consumatore possa ritirarsi successivamente al primo incontro con il mediatore, il diritto nazionale può legittimamente prevedere sanzioni in caso di immotivata mancata partecipazione delle parti alla procedura di mediazione.

Con l'occasione la Corte ha inoltre ribadito le condizioni necessarie ad assicurare, in via generale, la compatibilità tra la normativa comunitaria in tema di ADR consumeristiche e la legislazione degli Stati Membri in tutti i casi in cui il ricorso alla mediazione costituisca nell'ordinamento interno condizione di procedibilità della domande giudiziale, rimettendo al giudice nazionale il compito di verificarne il rispetto nel caso concreto.

Secondo i Giudici di Lussemburgo, è in particolare a tal fine necessario che:

• il procedimento non conduca a una decisione vincolante per le parti senza che il consumatore abbia precedentemente accettato la soluzione proposta.;

• la procedura non ritardi in modo rilevante la possibilità di sottoporre la controversia a un giudice;

• nelle more dell'esperimento della procedura di mediazione, la prescrizione rimanga sospesa e sia impedito il perfezionarsi di eventuali decadenze;

• il Consumatore non debba sopportare costi, o quantomeno "costi ingenti", per accedere alla procedura;

• l'utilizzo di strumenti elettronici non costituisca l'unica modalità di accesso alla procedura di conciliazione;

• pendente la procedura di conciliazione sia in ogni caso possibile per il consumatore adire il Giudice per ottenere la concessione di provvedimenti cautelari d'urgenza.

Ulteriori argomenti che confermano la non necessità della presenza dell’avvocato sono le acute riflessioni svolte da Barbara COCOLA e Giovanna Elisabetta ZACCHEO (La nuova procedura civile: Pubblicazione del 29.3.2018, La Nuova Procedura Civile, 2, 2018):" omissis … Vale la pena ripercorrere puntualmente quanto sancisce la direttiva 2013/11 per trarne innanzitutto una visione chiara e precisa di quanto disposto a livello di legislazione primaria. L’art. 9 della Direttiva 11/2013 attuata con d. lgs 130/2015, all’art. 9, rubricato “Equità” sancisce che “Gli Stati membri garantiscono che nell’ambito delle procedure ADR:…..le parti siano informate del fatto che non sono obbligate a ricorrere a un avvocato o consulente legale, ma possono chiedere un parere indipendente o essere rappresentate o assistite da terzi in qualsiasi fase della procedura”.

Il “Considerando” n. 19 della direttiva de qua sancisce che “La presente direttiva è destinata a essere applicata orizzontalmente a tutti i tipi di procedure ADR, comprese le procedure ADR contemplate dalla direttiva [2008/52]”

La direttiva 2013/11 è dunque, come essa stessa statuisce nei considerando, “ad efficacia orizzontale”.

Si tratta dunque di una direttiva che, nell’ambito di tutte le procedure ADR, consente ai singoli di invocare direttamente il diritto europeo dinanzi ai tribunali, a prescindere dall’esistenza di atti normativi di diritto nazionale.

Come riconosciuto anche dalla Corte di Giustizia Europea, alcune direttive hanno efficacia diretta quando le “disposizioni sono incondizionate e sufficientemente chiare e precise”.

Questo è il caso.

Dalla lettura in combinato disposto del Considerando n. 19 e dell’art. 9 della direttiva stessa, non vi è dubbio alcuno che la parte possa partecipare al procedimento di mediazione anche senza l’assistenza dell’avvocato.

A livello di normativa nazionale, ad avviso di chi scrive compatibilmente con la normativa di rango europeo, se è vero che nel decreto viene menzionata l’assistenza dell’avvocato agli articoli 5 comma 1 bis e 8 comma 1 del d. lgs. 28/2010,ciò avviene senza che mai essa sia qualificata come necessaria od obbligatoria, ed è altrettanto vero che nessuna conseguenza o sanzione è prevista in caso una delle parti non sia accompagnata dall’avvocato.

L’art. 5 comma 1 bis del d. lgs. 28/2010 prevede che “Chi intende esercitare in giudizio un’azione relativa a una controversia in materia di condominio, diritti reali, divisione, successioni ereditarie, patti di famiglia, locazione, comodato, affitto di aziende, risarcimento del danno derivante da responsabilità medica e sanitaria e da diffamazione con il mezzo della stampa o con altro mezzo di pubblicità, contratti assicurativi, bancari e finanziari, è tenuto, assistito dall’avvocato, preliminarmente a esperire il procedimento di mediazione ai sensi del presente decreto …”.

L’obbligo di cui all’articolo testé citato riguarda l’esperimento del procedimento di mediazione, non l’assistenza dell’avvocato, che è citata in un inciso tra due virgole e che non è definita “necessaria” od “obbligatoria” né qui né nel successivo art. 8 comma 1 dove si legge “Al primo incontro e agli incontri successivi, fino al termine della procedura, le parti devono partecipare con l’assistenza dell’avvocato”. La obbligatorietà della presenza dell’avvocato non è considerata tale nemmeno dalla legge.

Peraltro, nell’art. 12 del d. lgs. 28/2010 si legge “Ove tutte le parti aderenti alla mediazione siano assistite da un avvocato, l’accordo che sia stato sottoscritto dalle parti e dagli stessi avvocati costituisce titolo esecutivo per l’espropriazione forzata, l’esecuzione per consegna e rilascio, l’esecuzione degli obblighi di fare e non fare, nonché per l’iscrizione di ipoteca giudiziale.

Gli avvocati attestano e certificano la conformità dell’accordo alle norme imperative e all’ordine pubblico. In tutti gli altri casi l’accordo allegato al verbale è omologato, su istanza di parte, con decreto del presidente del tribunale, previo accertamento della regolarità formale e del rispetto delle norme imperative e dell’ordine pubblico”.

La norma regola compiutamente il caso in cui le parti siano tutte assistite dall’avvocato e il caso in cui invece ciò non avvenga, a dimostrazione che l’assistenza legale in mediazione è prevista ai soli fini dell’efficacia esecutiva ma non necessaria, supplendo, nel caso le parti non siano assistite dall’avvocato, il decreto di omologa del Presidente del Tribunale.

Vale la pena ricordare, a chi sostiene che l’assistenza sia necessaria per le mediazioni c.d. obbligatorie e facoltativa per le mediazioni c.d. volontarie, che il primo capoverso, che già cominciando con il termine “ove” denuncia la possibilità che si verifichi una situazione diversa da quella che si norma, non richiama l’art. 5 comma 1 bis, sicché è escluso che la presenza dell’avvocato sia “necessaria nelle mediazioni ex art. 5 comma 1 bis e non in quelle ex art 2.

Trattasi di interpretazione arbitraria e non sostenibile, considerato l’impianto normativo attualmente vigente.

Nessuna norma, poi, attribuisce al responsabile dell’Organismo, tantomeno al mediatore designato, alcun potere di fare cessare il procedimento di mediazione in caso una o più parti della mediazione non siano legalmente assistite. E nemmeno la controparte può opporsi allo svolgimento del procedimento di mediazione qualora la controparte sia determinata a non avere assistenza legale.

Se il legislatore avesse voluto inserire nel d. lgs. 28/2010 la presenza dell’avvocato quale necessaria, ne avrebbe certamente previsto l’obbligatorietà, sancendo una sanzione per il caso in cui ciò non avvenisse.

O quantomeno avrebbe imposto al mediatore di interrompere o sospendere il procedimento nei casi in cui una o più parti ritenessero superflua l’assistenza legale. E avrebbe certamente previsto delle norme che sancissero un comportamento specifico da parte del responsabile dell’organismo di mediazione per i casi in cui una parte si fosse presentata senza avvocato alla mediazione.

Ciò non è avvenuto, a parere di chi scrive, consapevolmente al fine di mantenere la normativa nazionale compatibile con quella di rango europeo.

Ma vi è una ulteriore considerazione da farsi. La Corte di Giustizia ha specificato che “ il requisito di una procedura di mediazione, come condizione di procedibilità di un ricorso giurisdizionale, può quindi rivelarsi compatibile con il principio della tutela giurisdizionale effettiva qualora tale procedura non conduca a una decisione vincolante per le parti, non comporti un ritardo sostanziale per la proposizione di un ricorso giurisdizionale, sospenda la prescrizione o la decadenza dei diritti in questione e non generi costi, ovvero generi costi non ingenti, per le parti, a patto però che la via elettronica non costituisca l’unica modalità di accesso a detta procedura di conciliazione e che sia possibile disporre provvedimenti provvisori nei casi eccezionali in cui l’urgenza della situazione lo impone”.

Tra i requisiti che rendono la procedura di mediazione quale condizione di procedibilità, compatibile con il principio della tutela giurisdizionale effettiva, vi è l’economicità della stessa: alle parti non devono dunque essere addossati costi ingenti.

E’ indubbio che l’assistenza legale obbligatoria comporterebbe un costo aggiuntivo per le parti, e renderebbe la mediazione incompatibile col principio della tutela giurisdizionale".

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