Maltrattamenti in famiglia: il ritardo della denuncia non esclude di per sé la attendibilità delle accuse

La Corte di Cassazione illustra le ragioni che possono indurre la vittima a denunciare anche dopo molti anni la violenza domestica.
Martedi 17 Novembre 2015

É di qualche giorno fa la notizia di una decisione del Tribunale di Genova, che in un giudizio di separazione personale di due coniugi, ha negato alla moglie, che chiedeva dopo 24 anni di matrimonio - nel corso del quale aveva subito violenze e maltrattamenti - la separazione con addebito, sia un indennizzo sia l'assegno di mantenimento, con la motivazione che ventiquattro anni erano tanti, troppi per ribellarsi: ciò significava, per i giudici di Genova, aver subito, tollerato, avallato di fatto simili condotte.

Al di là delle polemiche (anche in Parlamento) e delle forti perplessità che ha suscitato tale decisione, si segnala la  della VI Sezione Penale della Corte di Cassazione, che, naturalmente in altro ambito, si è pronunciata anche in merito alle ragioni che possono esserci alla base del “ritardo” con cui, a volte, vengono denunciati i maltrattamenti e quindi alla sua rilevanza.

Nal caso in esame, una donna, dopo un certo numero di anni, decide di denunciare per maltrattamenti il marito; il Tribunale assolve il marito dal delitto ex art. 576 c.p.p., mentre il giudice di appello, su ricorso della sola parte civile, in riforma della sentenza di primo grado e in punto di sola responsabilità civile, condanna l'imputato al risarcimento dei danni e alle rifusione delle spese.

Secondo i giudici di appello, in particolare, il ritardo con il quale la vittima si era determinata a denunciare i fatti “si poteva spiegare in ragione dell'intreccio di sentimenti contrastanti di affetto e di paura nonché della situazione di dipendenza psicologica ed economica che sovente connota i rapporti familiari”.

Il marito propone ricorso per cassazione, che viene rigettato dalla Suprema Corte, che afferma che la sentenza di appello correttamente ha deciso che i comportamenti posti in essere dal ricorrente debbano sussumersi nella fattispecie dei maltrattamenti in famiglia.

E in punto di “tardività” della denuncia della persona offesa, la Suprema Corte afferma che “risponde ad una condivisibile massima d'esperienza che le persone offese di reati commessi in ambito familiare siano spesso restie a rendere pubbliche le loro tristi vicende, e ciò in considerazione dell'intrecciarsi di sentimenti contrastanti, di affetto, di paura e/o risentimento, che spesso connotano le relazioni fra congiunti o di situazioni di dipendenza psicologica ed economica, che possono costituire un freno alla denuncia di maltrattamenti subiti.

Non è quindi inconsueto riscontrare nella prassi, sopratutto in contesti familiari consolidati o comunque connotati da legami sentimentali intensi, quella situazione emotiva – che la psicologia qualifica in termini di dipendenza affettiva – che induce una persona a ritenere che il proprio benessere dipenda da un'altra e che la induce ad accettare qualunque compromesso, piegandosi alla volontà dell'altro fino ad annullare la propria dignità....

Prosegue la Corte “..La resistenza a formalizzare una denuncia nei confronti del soggetto maltrattante può dipendere dal timore di compiere scelte tali da provocare la dissoluzione dell'unità familiare e arrecare pregiudizio di natura economica o scompensi affettivi ai figli” piuttosto che dalla paura di subire gravi reazioni aggressive da chi è aduso a violenza.

Tali situazioni, conclude la Suprema Corte, non rendono di per sé inaffidabile la narrazione delle violenze subite dal partner e la perdurante tolleranza deve essere valutata al pari di tutte le altre circostanze concrete.


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