Legittime le sanzioni applicate da Facebook agli utenti che violano gli standard della community

Tribunale ordinario di Varese – sentenza n. 1181/2022 del 2.08.2022.
Avv. Alessio Stefanini.

Con la recente sentenza del 2 agosto 2022, il Tribunale di Varese è stato chiamato a decidere sulla sospensione di un profilo Facebook per divulgazione di fake news sul Covid-19 ed hate speech da parte di un utente. Il Tribunale, con la decisione in commento, ha sancito la legittimità della sospensione del profilo per 30 gg e la rimozione dei post che veicolavano disinformazione sanitaria, in accordo con le condizioni contrattuali del popolare social network.

Venerdi 28 Ottobre 2022

La vicenda processuale in sintesi.

Con ricorso ex art 702 bis c.p.c. un privato cittadino residente in provincia di Varese ha convenuto in giudizio il noto social network Facebook (Facebook Ireland LTD) riferendo di essere titolare dal 2012 di un profilo personale, nonché amministratore di un gruppo con 757 iscritti.

Secondo il ricorrente, Facebook avrebbe in più occasioni limitato ed impedito il suo accesso alla piattaforma ritenendo la sua condotta contraria alle regole di comportamento (c.d. Standard della community). In particolare, tra il dicembre 2020 e l’agosto 2021 la ricorrente avrebbe subito reiterate sospensioni dell’account da 24 ore a 30 giorni, con elminazione di post pubblicati sul gruppo amministrato.

L’ultimo post rimosso da Facebook aveva ad oggetto la riproduzione di un discorso tenuto da una parlamentare alla Camera dei Deputati, riguardante il tema del Covid-19 e la critica alla gestione politica della pandemia da parte del Governo.

Secondo la ricorrente, il contratto concluso con Facebook doveva qualificarsi come contratto a prestazioni corrispettive con clausole vessatorie per l’utente, quindi nulle ex art. 36 D.lgs. n. 260/2005 (codice del consumo). In secondo luogo, la ricorrente lamentava una carenza di buona fede in capo a Facebook in quanto le restrizioni subite sarebbero state arbitrarie, illecite e gravemente lesive dei propri diritti, anche costituzionali. Tanto premesso chiedeva al Tribunale l’ordine di riattivazione dell’account ed il ripristino del post oscurato, con condanna di € 200,00 per ogni giorno di sospensione, sino all’effettivo ripristino, con penale di € 500,00 per ogni giorno di ritardo nell’applicazione dell’ordinanza.

Le istanze della ricorrente venivano puntualmente contestate dalla società Facebook Ireland LTD la quale, con la propria comparsa di costituzione e risposta sosteneva che il servizio di Facebook è fornito da una piattaforma privata, disciplinata da regole stabilite nell’ambito dell’autonomia privata, che l’utente accetta espressamente prima di concludere l’iscrizione. Sin dal 2018 Facebook si era attivata per combattere la disinformazione predisponendo una specifica sezione delle condizioni d’uso, poi integrata nel corso del 2020 in collaborazione con OMS, UNICEF e ECDC, per tutelare i propri utenti di fronte ad informazioni false sul Covid-19.

Posto che la ricorrente aveva violato queste regole, Facebook sosteneva di aver regolarmente applicato sanzioni progressive in linea con gli standard della community. Secondo il noto social network, il diritto dell’utente di manifestare il proprio pensiero non era stato violato posto che quest’ultimo era comunque libero di manifestare altrove, non essendo quello di Facebook un servizio essenziale.

I motivi della decisione – giurisdizione italiana e legge applicabile.

Preso atto delle distinte posizioni articolate dalle parti, il Tribunale di Varese nella persona della dott.ssa Recalcati, ha compiuto un’approfondita disamina della questione sotto diversi punti di vista.

Le motivazioni della sentenza partono, doverosamente, dalla giurisdizione dalla legge applicabile al caso concreto, atteso che la fattispecie presenta profili di internazionalità.

Il Tribunale ha ritenuto sussistere la giurisdizione italiana in quanto al caso di specie trova applicazione il Reg. n. 1215/2012 in favore del consumatore. Quanto, invece, alla legge applicabile viene in rilievo nel caso di specie il Reg. Roma I (n. 593/2008) relativo alle obbligazioni contrattuali. Detto regolamento, all’art. 6 individua quale legge applicabile quella del Paese in cui il consumatore ha la residenza abituale.

Qualificazione giuridica del rapporto: contratto per adesione a prestazioni corrispettive.

Il Tribunale di Varese ha espressamente qualificato il rapporto intercorrente tra utente e social network come contratto per adesione a prestazioni corrispettive e a titolo oneroso, ove l’utente assume la veste di consumatore.

In particolare, il contratto si qualifica come “contratto per adesione” in quanto, per godere dei servizi offerti da Facebook l’utente deve accettare, mediante flag, le condizioni d’uso predisposte in via unilaterale dalla piattaforma.

Trattasi, inoltre di un contratto a prestazioni corrispettive dal momento che Facebook fornisce all’utente un servizio offrendogli strumenti che gli consentono di connettersi virtualmente ad altri utenti. Per contro, l’utente consente a Facebook di utilizzare i suoi dati personali a fini pubblicitari. Questo è scritto molto chiaramente nelle Condizioni d’uso ove si legge che: “Anziché richiedere dall’utente un pagamento per l’utilizzo di Facebook o degli altri prodotti e servizi coperti dalle presenti Condizioni, Facebook riceve una remunerazione da parte di aziende e organizzazioni per mostrare agli utenti inserzioni relative ai loro prodotti e servizi. Utilizzando i nostri prodotti, l’utente accetta che Facebook possa mostrargli inserzioni che ritiene pertinenti per l’utente e per i suoi interessi”.

La corrispettività delle prestazioni e l’aspetto remunerativo del contratto concluso con Facebook sono già stati oggetto di precedenti pronunce giurisprudenziali tra cui Tribunale Vicenza, sentenza del 19 febbraio 2022; Tribunale di Bologna, sentenza del 10 marzo 2021, Corte d’Appello di L’Aquila del 18 ottobre 2021 e Consiglio di Stato n. 2631/2021.

Seppur trattasi di un contratto per adesione, le clausole contenute nelle condizioni d’uso non paiono assumere un carattere vessatorio a parere del giudice di Varese. Si legge, infatti, nella sentenza che “le previsioni contrattuali in esame, astrattamente considerate, non possono ritenersi vessatorie (…) potendo essere ricondotte nell’alveo dell’ordinaria regolamentazione contrattuale, volta ad assicurare un’adeguata fruizione del servizio da parte di tutti gli utenti: Facebook presta un servizio dietro un corrispettivo e lo presta a determinate condizioni; nel contratto sono previsti determinati obblighi di comportamento, che devono essere rispettati dall’utente nella fruizione del servizio, pena la limitazione/sospensione del servizio da parte del professionista. Il potere riconosciuto contrattualmente a Facebook di limitare o sospendere il servizio può, in particolare, essere ricondotto all’interno dell’istituto di cui all’art. 1460 c.c.”, ossia l’eccezione di inadempimento.

In altre parole, al momento dell’iscrizione a Facebook l’utente, presa visione delle regole di condotta contenute negli Standard della Community accetta di uniformarsi ai comportamenti ammessi ed accetta, altresì, le conseguenze delle loro violazioni. Per contro, il gestore della piattaforma è autorizzato a porre in essere tutte le misure sanzionatorie previste dalle condizioni stesse in presenza di evidenti violazioni delle condizioni d’uso pattuite tra le parti.

Tutela dei diritti costituzionalmente garantiti.

Da ultimo, la ricorrente aveva allegato al ricorso anche alcune contestazioni di natura pubblicistica aventi rilevanza costituzionale, dal momento che lamentava anche la violazione del diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero sancito dall’art. 21 Cost.

Il Giudice di prime cure, analizzata a fondo la fattispecie, ha stabilito che le misure sanzionatorie adottate da Facebook non si risolvono in una lesione del diritto costituzionalmente protetto. Ciò in quanto il diritto costituzionale in commento non è assoluto ma incontra dei limiti, tra cui quello del “buon costume”.

Secondo il Tribunale di Varese “Internet è riconducibile nella categoria “altro mezzo di diffusione” contemplata dall’art. 21 comma 1 Cost. e, pertanto, anche alla manifestazione del pensiero tramite internet devono essere applicate le garanzie costituzionali”. Tuttavia, è necessario bilanciare la portata di questo diritto rispetto agli altri, di pari rango costituzionale.

Sul punto, il Giudice varesino ha ritenuto che le limitazioni contenute nella sezione “disinformazione” sono ammissibili in quanto mirano a limitare la diffusione di notizie false relative al Covid-19 e, quindi, aiutano a tutelare la salute pubblica. Diritto, questo, che gode anch’esso di sicura rilevanza costituzionale. Quindi anche le sanzioni previste dalle condizioni d’uso sono parimenti legittime laddove sono indirizzate a rendere effettivo tale bilanciamento di diritti fondamentali.

Conclusioni

Concludendo la disamina, condotta sul solco tracciato dalla sentenza, emerge un principio importante, destinato sicuramente a far discutere per i mesi a venire. Il tema del controllo delle piattaforme social sta divenendo un tema sempre più centrale nella quotidianità dei cittadini e sempre più di frequente arriva ad occupare anche le aule di giustizia.

La pronuncia del Tribunale di Varese è destinata ad essere ricordata in quanto sembra andare controcorrente rispetto alle precedenti pronunce giurisprudenziali che si ponevano, invece, su un piano molto più favorevole per l’utente (cfr. Corte D’Appello de L’Aquila n. 1659/2021; Tribunale Pordenone ord. 10 dicembre 2018).

Secondo la nuova corrente interpretativa i diritti degli utenti devono essere tutelati ma incontrano, necessariamente, alcune limitazioni che devono essere adeguatamente valutate caso per caso. In generale, laddove le condizioni d’uso siano redatte per garantire il rispetto di valori costituzionalmente protetti e vengano accettate dall’utente, anche le relative sanzioni saranno legittime.

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