Lavoro: mancata emissione dello scontrino; sanzione conservativa e non espulsiva.

Corte di Cassazione - Sentenza 09 luglio 2021, n. 19585.

La vicenda di cui si occupa la sentenza in commento è particolarmente interessante, per cui riteniamo necessaria una breve ricostruzione dei fatti di causa del primo e del secondo grado.

Il Tribunale di Massa aveva dichiarato illegittimo il licenziamento disciplinare intimato dalla Azienda ad una lavoratrice, disponendone la reintegra della medesima nel posto di lavoro, ai sensi del comma quarto dell'art. 18 legge n. 300 del 1970.

Venerdi 23 Luglio 2021

Alla lavoratrice, addetta al bar presso un centro commerciale di Massa, era stato addebitato di avere omesso la registrazione di n. 22 acquisti e l'omessa consegna degli scontrini ai clienti, con connesso omesso versamento dei corrispettivi in cassa in tre giorni diversi.

Secondo il giudice di primo grado, in base alla istruttoria esperita, si era raggiunta la piena prova che erano stati gli stessi responsabili del punto vendita a chiedere alla ricorrente e alle altre addette alla vendita di non registrare gli acquisti: il tutto al dine di acquisire del denaro “in nero” e anche per simulare con quello stesso danaro l'acquisto di altri prodotti del Bar “in promozione”, la cui vendita dava diritto a premi per i direttori, e per lo stesso punto vendita.

Si era trattato di una condotta comune ad altre colleghe e nessuna aveva trattenuto o rubato danaro, mettendolo a disposizione dei superiori, sicché il suo comportamento, andava punito con una sanzione conservativa e non espulsiva ai sensi del CCNL applicabile.

La Corte di appello di Genova, invece, con sentenza n. 397 del 2018, aveva riformato in parte la sentenza del primo grado relativamente al regime di tutela applicabile al licenziamento, ritenendo che la fattispecie rientrasse nelle "altre ipotesi" di cui al CCNL applicato, per cui il rapporto di lavoro andava dichiarato risolto, condannando parte datoriale al pagamento di 18 mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto.

Nessuna reintegra quindi, e ciò per i seguenti presupposti:

➢ i fatti addebitati sono provati ma non sono così gravi da meritare il licenziamento perché, come già ritenuto dal Tribunale, la ricorrente si era limitata ad assecondare i suoi superiori;

➢ l'assunto della società reclamante, secondo cui la ricorrente avrebbe potuto non seguire le direttive dei responsabili del servizio sulla condotta antigiuridica e anzi avrebbe dovuto denunciarla ai superiori e/o al sindacato, non consente di modificare tale giudizio, essendo evidente il condizionamento psicologico subito dalla ricorrente e dalle altre addette al punto vendita;

➢ tuttavia, diversamente da quanto ritenuto dal primo giudice, il comportamento addebitato non può considerarsi frutto di semplice negligenza punibile ai sensi del CCNL con una sanzione conservativa, ma è frutto di una condotta consapevolmente volta a far conseguire non solo ad altri (direttori, capi area, il punto vendita), ma anche alla stessa ricorrente, vantaggi indebiti;

➢ va quindi applicato il principio enunciato dalla giurisprudenza di legittimità secondo cui, quando vi è sproporzione tra sanzione e infrazione, va riconosciuta la tutela reale solo quando il fatto accertato rientri tra le condotte punibili ai sensi del CCNL con una sanzione conservativa, mentre va riconosciuta la tutela risarcitoria se, come nel caso della decisione, la condotta addebitata non coincida con alcuna delle fattispecie previste dal CCNL.

La questione, ovviamente, arrivava al vaglio della Suprema Corte, coinvolgendo molteplici profili, inclusa la interpretazione del CCNL.

Secondo il Supremo Collegio, la sentenza impugnata ha premesso di condividere la ricostruzione dei fatti seguita dal primo giudice: i fatti commessi non avevano una gravità tale da giustificare il licenziamento.

E’ punto fermo ed insindacabile che la lavoratrice si fosse limitata ad "assecondare" le richieste dei suoi superiori, sicché "il grado di colpa che le può essere addebitato è modesto", e secondo principi consolidati e granitici di legittimità, il giudizio di gravità e proporzionalità della condotta valutativa del giudice della fattispecie, sono propri del giudice di merito, insindacabili nel “terzo grado”.

Il Supremo Collegio, quindi, fa chiarezza sul punto “proporzionalità”, invocando i suoi principi consolidati:

➢ nell'ambito della valutazione di proporzionalità tra la sanzione e i comportamenti, nell'ipotesi di sproporzione tra sanzione e infrazione, va riconosciuta la tutela risarcitoria se la condotta dimostrata non coincida con alcuna delle fattispecie per le quali i contratti collettivi o i codici disciplinari applicabili prevedono una sanzione conservativa.

➢ Ove il fatto contestato e accertato commesso dal lavoratore sia espressamente contemplato da una previsione di CCNL o Regolamento Aziendale come punibile con sanzione conservativa, il licenziamento illegittimo sarà meritevole della tutela reintegratoria (cfr. Cass. n. 31839 del 2019).

Il caso sottoposto all’esame degli Ermellini, quindi, si trasforma in un caso di interpretazione delle norme contrattuali dei CCNL e regolamentari Aziendali.

Secondo la ricorrente vi sarebbe una omessa disamina della clausola finale ("di chiusura") di cui alla lett. f) dell'art. 7, la quale prevede che è soggetto a sanzione conservativa altresì il dipendente che "in altro modo trasgredisca l'osservanza del presente contratto o commetta atti che portino pregiudizio alla disciplina, alla morale, all'igiene ed alla sicurezza dell'azienda".

Ad avviso della Suprema Corte anche nell'interpretazione dei contratti collettivi, andrebbero applicati i principi di cuì:

- all'art. 1362 cod. civ., che impone all'interprete di indagare quale sia stata la comune intenzione delle parti senza limitarsi al senso letterale delle parole.

- all’art. 1363 cod. civ., che ai fini della ricerca della comune intenzione dei contraenti, indica quale principale strumento il senso letterale delle parole e delle espressioni utilizzate nel contratto, il cui rilievo dev'essere però verificato alla luce dell'intero contesto contrattuale, sicché le singole clausole vanno considerate in correlazione tra loro, dovendo procedersi al loro coordinamento “le une a mezzo delle altre” attribuendo a ciascuna il senso risultante dall'intero negozio, non utilizzando singole parti del contratto o frammenti di esso (Cass. n. 4670 del 2009).

- all'art. 1365 cod. civ., che consente l'interpretazione estensiva di clausole contrattuali se inadeguate per difetto dell'espressione letterale rispetto alla volontà delle parti, tradottasi in un contenuto carente rispetto all'intenzione delle medesime, e tenendo presenti le conseguenze volute dalle parti con l'elencazione esemplificativa dei casi menzionati per ricomprendervi anche quelli non menzionati (Cass. n. 9560 del 2017, richiamata pure da Cass. sez. lav. n. 31839 del 2018, cfr. Cass. n. 31839 del 2019, in motivazione).

E’ stato escluso, invece, nella particolare materia che interessa, il ricorso all'applicazione analogica anche perché l'accesso alla tutela reale di cui all'art. 18, comma 4, st.lav. è divenuta eccezionale a seguito della modifica introdotta dalla legge n. 92 del 2012.

La Corte, in conclusione, al fine di stabilire quale sia la portata applicativa delle ipotesi contemplate dal contratto collettivo per le quali è prevista l'irrogazione di una sanzione conservativa, e conseguentemente la tutela invocabile e applicabile stabilisce con fermezza che l'esegesi della norma va condotta attraverso la corretta e completa applicazione dei tradizionali criteri di ermeneutica contrattuale nei termini di cui alla giurisprudenza citata.

Questa operazione interpretativa nella sentenza impugnata è completamente mancata e la mancata disamina della disciplina contrattuale rende la sentenza radicalmente carente di motivazione in ordine al processo logico attraverso il quale è giunta ad escludere la riconducibilità della condotta posta in essere in alcuna delle previsioni contrattuali suscettibili, secondo la volontà delle parti collettive, di sanzione conservativa e quindi, potrebbe rendere errata la tutela applicata.

Alla Corte non resta quindi che cassare la sentenza di secondo grado, con rinvio alla Corte di Appello in diversa composizione, per il riesame del merito dell'appello alla luce dei principi ermeneutici appena esposti.

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