La detenzione domiciliare in casi speciali ex artt. 43, comma 1, lett. B e 47 quinquies O.P. a tutela dei figli minori degli anni dieci. Gli interventi chiarificatori della Cassazione rispetto ad una misura che mira a tutelare l’interesse del minore ad un rapporto equilibrato con almeno uno dei genitori.
Martedi 19 Maggio 2020 |
In tempi di acceso dibattito politico sulle "scarcerazioni" per coronavirus, meglio sarebbe dire di sospensione della pena carceraria in favore di quella domiciliare per gravi motivi di salute, analizziamo le linee guida degli ermellini in tema di detenzione domiciliare speciale ex artt. 47 ter, c.1 lett. b) e 47 quinquies ordinamento penitenziario per i detenuti con prole minore degli anni dieci.
L’art. 47 ter, c. 1 lett. b) della legge 354/1975, prevede la possibilità di concedere la detenzione domiciliare al padre di prole di età inferiore ad anni dieci con lui convivente, quando la madre sia deceduta o altrimenti assolutamente impossibilitata a dare assistenza alla prole, a condizione che il residuo pena non sia superiore ad anni quattro; mentre l’art. 47 quinquies, c. IIV, prevede la possibilità di concedere la detenzione domiciliare al genitore detenuto che ha scontato almeno un terzo della pena, per provvedere alla cura ed alla assistenza dei figli di età non superiore a dieci anni se l'altro genitore è deceduto o impossibilitato e non vi è modo di affidare la prole ad altri.
Le difficoltà interpretative rispetto a siffatto beneficio penitenziario attengono al concetto di “impossibilità” della madre ad accudire i figli durante la detenzione del padre, o viceversa, ancor di più rispetto alla presenza di altri familiari in grado di coadiuvare la madre o il padre nella cura quotidiana dei bambini.
Le premesse della Corte di Cassazione.
Il corretto significato ermeneutico dell’aggettivo “impossibilitata” ha registrato numerosi interventi nomofilattici in argomento, tesi a conciliare il necessario rigore imposto dallo stato di detenzione, con i diritti, costituzionalmente protetti, all’uguaglianza dei vari membri della famiglia, all’assistenza della prole, alla funzione rieducativa della pena.
Queste premesse metodologiche hanno portato la Corte di legittimità a ribadire che le norme in commento hanno un’unica finalità: la speciale protezione accordata all’infanzia, nell’impossibilità, per il detenuto padre o madre di prole di età inferiore ai dieci anni, di offrire alla stessa un’adeguata assistenza nei casi in cui l'altro genitore sia a ciò impossibilitato (Cass. Pen. Sez. I n. 21966/2018).
Il beneficio è preordinato a garantire il mantenimento della relazione del figlio con almeno uno dei genitori, e non già ad assicurare alla famiglia l’assistenza necessaria, che è onere delle autorità competenti fornire (Cass. Pen. Sez. I n. 51998/2019).
Prioritario è l’interesse del soggetto debole, distinto dal condannato e particolarmente meritevole di protezione, quale è quello del minore, ad instaurare un rapporto quanto più possibile normale con la madre o, in alternativa, con il padre, in una fase nevralgica del suo sviluppo psico-fisico.
I presupposti per la concessione del beneficio.
Ribadite le premesse sulle quali muovere il percorso ermeneutico, i giudici di Piazza Cavour hanno chiarito che non rileva la situazione di mera difficoltà, anche seria, della madre a prestare assistenza al figlio, specie se derivante da normali impegni lavorativi, ancor di più se compensata dall’aiuto di altri familiari.
L’impedimento della madre all’assistenza del minore per ragioni di lavoro è l’ambito che registra il maggiore numero di interventi della Corte di cassazione che, pacificamente, esclude che la sola attività lavorativa da parte di una donna con prole infradecenne possa determinare, di per sé, quella condizione di assoluta impossibilità di prendersi cura della prole stessa, tale da giustificare, in favore del padre del minore, la concessione della detenzione domiciliare.
Tuttavia, la giurisprudenza di legittimità ha fornito all’interprete un’altra prospettiva di lettura della norma, affermando che "l’assoluta impossibilità della madre ad accudire la prole non può essere intesa in modo talmente rigido da escludere la stessa applicazione del beneficio, nel senso di richiedere una difficoltà estrema, tale da superare le normali capacità reattive della persona, autonomamente considerata e nel contesto familiare" (Sez. 1, n. 1740 del 15/04/1994, dep. 18/05/1994, Borzachetli, Rv. 197630).
Al contrario, la misura deve essere concessa laddove la madre lavoratrice versi in situazione di estrema difficoltà aggravata dalle sue condizioni patologiche, tali da non consentirle di gestire al meglio le proprie responsabilità genitoriali (Cass. Pen. Sez. I n. 21966/2018).
Aspetto, quest’ultimo, che ha registrato il recente intervento della prima sezione penale, confermativo della necessità, per il giudice di sorveglianza, di verificare, anche d’ufficio e se necessario disponendo perizia, l’effettiva sussistenza della condizione di impedimento materno a garantire un’adeguata assistenza (Cass. pen. Sez. I n. 51998/2019).
Conclusivamente, la verifica del giudice di sorveglianza deve essere diretta ad accertare con ogni mezzo, stante l’interesse prevalente del minore e non del detenuto e senza gravare la difesa di oneri probatori incongrui, se, tenuto conto dell’attività lavorativa del genitore non detenuto, delle sue condizioni di salute e dell’aiuto offerto dagli altri familiari e dallo Stato, al minore sia garantita o meno una adeguata capacità accuditiva.