Infortunio sul lavoro e concorso di colpa del lavoratore: il rischio elettivo.

Avv. Giovanni Stefano Messuri.

La Cassazione precisa ed elenca i criteri “guida” dell’orientamento consolidato.

Cassazione civile sez. VI, sottosezione III, Ordinanza 15/05/2020, n. 8988 Presidente Raffaele Frasca, relatore Marco Rossetti 

Mercoledi 16 Dicembre 2020

Con estrema chiarezza e lucidità l’ordinanza in commento ribadisce l’orientamento della Cassazione Civile in ordine al concorso di colpa della vittima di un infortunio sul lavoro. Al contempo analizza in dettaglio e fissa con precisione i principi cardine in materia di responsabilità, sia del datore di lavoro sia della vittima, e di nesso di causa materiale. Nella “missione” propria della Corte di Cassazione, quella di assicurare l'esatta osservanza delle leggi nelle decisioni dei giudici, questa pronuncia – oltre ad enunciare il principio di diritto che regge il caso specifico - si presta quindi ad essere un vero e proprio vademecum sul tema.

Del resto, il richiamo (non certo casuale o di mero stile) all’«orientamento costante e risalente» che «ha in più occasioni stabilito i principi…» (§ 1.1. della motivazione) sembra sottolineare che il sindacato di legittimità, protratto nel tempo, realizza appunto la nomofilachia e fornisce indirizzi interpretativi “uniformi” per mantenere, nei limiti del possibile, l’unità dell’ordinamento giuridico, attraverso una sostanziale uniformazione della giurisprudenza. Ciò che va sotto il nome di “diritto vivente”.

Si riportano a seguire le parti dell’ordinanza contenenti quelle che possiamo definire “direttive ermeneutiche” per gli interpreti e che, in motivazione, indicano le pronunce del citato orientamento costante e risalente. In linea generale la vittima di un infortunio sul lavoro può ritenersi responsabile esclusiva dell'accaduto solo in un caso: quando il lavoratore abbia tenuto “un contegno abnorme, inopinabile ed esorbitante rispetto al procedimento lavorativo ed alle direttive ricevute”.

Si tratta della nota ipotesi di “rischio elettivo”. Se il rischio cui si espone il lavoratore è privo di connessione con l'attività professionale, ed il lavoratore sia venuto a trovarsi esposto ad esso per scelta volontaria, arbitraria e diretta a soddisfare impulsi personali, quello non sarà più un “rischio lavorativo”, ma diviene un “rischio elettivo”, cioè creato dal prestatore d'opera a prescindere dalle esigenze della lavorazione, e quindi non meritevole della tutela risarcitoria od assicurativa da parte dell'assicuratore sociale. Il datore di lavoro, infatti, risponde dei rischi professionali - propri (e cioè insiti nello svolgimento dell'attività lavorativa); - e di quelli impropri (e cioè derivanti da attività connesse a quella lavorativa) ma non di quelli totalmente scollegati dalla prestazione che il lavoratore rende in quanto tale.

La pronuncia evidenzia quindi che, in applicazione di tali principi, è divenuta tralatizia la massima secondo cui il rischio elettivo sussiste in presenza di tre elementi: a) un atto del lavoratore volontario ed arbitrario, ossia illogico ed estraneo alle finalità produttive; b) la direzione di tale atto alla soddisfazione di impulsi meramente personali; c) la mancanza di nesso di derivazione con lo svolgimento dell'attività lavorativa. Ricorrendo tale ipotesi, la condotta del lavoratore spezza il nesso eziologico tra la condotta del datore di lavoro e l'infortunio, e la responsabilità datoriale viene meno per mancanza dell'elemento causale.

Al di fuori delle ipotesi di rischio elettivo, sorge il problema di stabilire se e a quali condizioni possa ritenersi la corresponsabilità del lavoratore vittima dell'infortunio. Anche rispetto a tale problema la giurisprudenza della Corte ha da tempo stabilito pochi principi chiari e semplici:

-) il primo principio è che l'art. 1227 c.c., comma 1, (a norma del quale “se il fatto colposo del creditore ha concorso a cagionare il danno, il risarcimento è diminuito secondo la gravità della colpa e l'entità delle conseguente che ne sono derivate”) si applica anche alla materia degli infortuni sul lavoro: -) sia perché nessuna previsione normativa consente di derogarvi; -) sia perché la legge impone anche al lavoratore l'obbligo di osservare i doveri di diligenza a tutela della propria o dell'altrui incolumità: tanto stabiliscono sia l'art. 2104 c.c. (obbligo generale di diligenza), sia il D. Lgs. 9 aprile 2008, n. 81, art. 20 (secondo il quale “Ogni lavoratore deve prendersi cura della propria salute e sicurezza e di quella delle altre persone presenti sul luogo di lavoro, su cui ricadono gli effetti delle sue azioni o omissioni, conformemente alla sua formazione, alle istruzioni e ai mezzi forniti dal datore di lavoro”); in quest’ultimo ambito l’inosservanza dell’obbligo specificato dai commi 2 e 3 del medesimo art. 20, è sanzionata dall’art. 59 del D. Lgs. 81/08, cit.);

-) il secondo principio è che, nella materia del rapporto di lavoro subordinato, l'applicazione dell'art. 1227 c.c. va coordinata con le speciali previsioni che attribuiscono al datore di lavoro il potere di direzione e controllo, ed il dovere di salvaguardare l'incolumità dei lavoratori.

Ne consegue che quando la condotta della vittima di un infortunio sul lavoro possa astrattamente qualificarsi come imprudente, deve nondimeno escludersi qualsiasi concorso di colpa a carico del danneggiato in tre ipotesi:

-) la prima ipotesi è quella in cui l'infortunio sia stato causato dalla puntuale esecuzione di ordini datoriali. In questo caso il datore di lavoro non può invocare il concorso di colpa della vittima che abbia eseguito un ordine pericoloso, perché l'eventuale imprudenza del lavoratore non è più “causa”, ma degrada a “occasione” dell'infortunio. Del resto, se così non fosse, si finirebbe per attribuire al lavoratore l'onere di verificare la pericolosità delle direttive di servizio impartitegli dal datore di lavoro, assumendosene il rischio;

-) la seconda ipotesi in cui il datore di lavoro non può invocare il concorso di colpa della vittima, ex art. 1227 c.c., è quella in cui l'infortunio sia avvenuto a causa della organizzazione stessa del ciclo lavorativo, impostata con modalità contrarie alle norme finalizzate alla prevenzione degli infortuni, o comunque contraria ad elementari regole di prudenza. Il datore di lavoro infatti ha il dovere di proteggere l'incolumità del lavoratore nonostante l'eventuale imprudenza o negligenza di quest'ultimo, con la conseguenza che la mancata adozione da parte datoriale delle prescritte misure di sicurezza costituisce in tal caso l'unico efficiente fattore causale dell'evento dannoso;

-) La terza ipotesi in cui il datore di lavoro non può invocare il concorso di colpa della vittima, ex art. 1227 c.c., è quella in cui l'infortunio sia avvenuto a causa di un deficit di formazione od informazione del lavoratore, ascrivibile al datore di lavoro. In tal caso, infatti, se è pur vero che concausa del danno fu l'imprudenza del lavoratore, non è men vero che causa dell'imprudenza fu la violazione, da parte del datore di lavoro, dell'obbligo di istruire adeguatamente i suoi dipendenti, e varrà dunque il principio per cui causa causae est causa causati, di cui all'art. 40 c.p.

La Corte enuncia infine il seguente principio di diritto: “Nel caso di infortunio sul lavoro, deve escludersi la sussistenza di un concorso di colpa della vittima, ai sensi dell'art. 1227 c.c., comma 1, quando risulti che il datore di lavoro abbia mancato di adottare le prescritte misure di sicurezza; oppure abbia egli stesso impartito l'ordine, nell'esecuzione puntuale del quale si sia verificato l'infortunio; od ancora abbia trascurato di fornire al lavoratore infortunato una adeguata formazione ed informazione sui rischi lavorativi; ricorrendo tali ipotesi, l’eventuale condotta imprudente della vittima degrada a mera occasione dell'infortunio, ed è perciò giuridicamente irrilevante”.

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