La condanna della Corte Penale Internazionale per il caso Almasri

La Camera preliminare I della Corte Penale Internazionale ha ritenuto sussistente la violazione da parte dell’Italia degli obblighi internazionali di cooperazione sanciti dall’art. 87 (7) Statuto di Roma in relazione al Caso ALMASRI, il Generale Libico sfuggito all’arresto disposto dalla Corte (v. decisione allegata commentata sulla Riv Sistema Penale).

Lunedi 27 Ottobre 2025

La CPI ha invece rimandato ad un secondo momento la decisione sul deferimento dello Stato all’Assemblea degli Stati parte (Assembly of States Parties, ASP) ovvero al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite (United Nations Security Council, UNSC), sempre ai sensi dell’art. 87 (7) dello Statuto.

La decisione si inserisce nel procedimento avviato nei confronti dell’Italia a seguito della mancata consegna alla Corte di Osama Elmasry Njeem, meglio noto come Almasri, che vene arrestato a Torino il 19 gennaio 2025,in esecuzione di una red notice dell’Interpol del giorno precedente

La Corte aveva infatti ritenuto sussistenti “ragionevoli motivi” per ritenere, secondo lo standard probatorio imposto dall’art. 58 (1) dello Statuto di Roma, che Almasri avesse commesso crimini di guerra e crimini contro l’Umanità a partire dal 15 febbraio 2015 nel centro di detenzione di Mitiga, vicino a Tripoli, all’epoca dei fatti sotto il suo controllo.

Il 21 gennaio la Corte d’Appello di Roma, in accoglimento della richiesta del Procuratore Generale, aveva dichiarato non luogo a procedere sullo arresto effettuato perché avvenuto irrituale, in assenza di previe interlocuzioni con il Ministro della Giustizia .

In conseguenza il Generale Libico era stato rimesso in libertà e rimandato in Libia con un aereo di Stato in quanto soggetto ritenuto pericoloso.

Il 17 febbraio 2025 la Camera Preliminare della Corte aveva invitato l’Italia a depositare proprie osservazioni sulla mancata consegna del Generale Almasri ed il Procuratore della CPI aveva chiesto il 21 Febbraio di dichiarare la violazione da parte dell’Italia degli obblighi di cooperazione sanciti dall’art.87 (7) dello Statuto di Roma derivanti dalla mancata esecuzione della richiesta sia di arresto e consegna di Almasri, sia di perquisizione e sequestro dei materiali trovati in suo possesso.

Il 6 Maggio l’Italia aveva presentato alla CPI le proprie osservazioni.

Il 25 Giugno il Procuratore depositava le osservazioni conclusive a cui facevano seguito le repliche dell’Italia il 28 luglio.

Merita ricordare che il procedimento previsto dall’art. 87 (7) Statuto di Roma viene instaurato a seguito di una presunta violazione degli obblighi di cooperazione imposti agli Stati parte dagli artt. 86-102 Statuto di Roma.

Gli Stati che fanno parte dello Statuto di Roma hanno, infatti, un obbligo generale di cooperazione con la Corte, che può avanzare richieste di consegna (artt. 89-90 Statuto di Roma), arresto e consegna (art. 91 Statuto di Roma), arresto provvisorio in casi di urgenza (art. 92 Statuto di Roma) e altre forme di cooperazione (art. 93 Statuto di Roma)

In caso di mancato ottemperamento a tali richieste, la CPI può dichiarare la violazione degli obblighi imposti dallo Statuto di Roma.

Il giudizio ex art. 87 (7) dello Statuto di Roma si compone di due condizioni cumulative: a) lo Stato deve avere mancato di ottemperare alla richiesta della CPI; b) la mancata cooperazione deve essere sufficientemente grave da avere impedito alla Corte l’esercizio delle proprie funzioni e dei propri poteri.

A fronte della condanna dello Stato per la violazione degli obblighi di cooperazione, la CPI può quindi decidere se deferire la questione all’ASP ovvero all’UNSC, laddove la giurisdizione della CPI sia stata attivata mediante referral di tale Organismo al Procuratore della CPI, come nel caso della Libia.

  • Le motivazioni della decisione

I Giudici hanno ritenuto all’unanimità che il Governo Italiano avrebbe tenuto una condotta in violazione degli obblighi di cooperazione sanciti dall’art. 87 (7) dello Statuto di Roma.

La Camera preliminare ha, infatti, ricordato che l’Italia aveva ricevuto la richiesta di arresto provvisorio di Almasri già il 18 gennaio, attraverso i canali diplomatici designati.

Nonostante la tempestiva esecuzione del mandato di arresto, la rimessione in libertà e il rimpatrio di Almasri avevano impedito alla CPI l’esercizio del potere di assicurare la presenza del sospettato di fronte alla Corte, condizione peraltro necessaria per la prosecuzione del procedimento, quantomeno dopo la fase della conferma delle accuse (artt. 61 e 63 Statuto di Roma).

L’Italia aveva poi omesso le necessarie consultazioni imposte dall’art. 97 Statuto di Roma nell’ipotesi di ostacoli all’esecuzione delle richieste della Corte, peraltro richieste dal Registro della CPI tra il 19 e il 21 gennaio.

La Camera preliminare I ha quindi sottolineato il carattere contraddittorio delle ragioni addotte dall’Italia nelle proprie osservazioni.

Quanto alla mancata previa interlocuzione con il Ministro della giustizia, i Giudici hanno evidenziato che, ai sensi dell’art. 88 Statuto di Roma, gli Stati hanno la responsabilità di adottare procedure interne che consentano la cooperazione con la CPI.

Inoltre, la richiesta di arresto provvisorio era stata trasmessa ai canali diplomatici individuati dallo stesso Stato italiano e, ad ogni modo, inviata al Ministro della giustizia alla prima occasione possibile.

Quanto ai presunti errori contenuti nel mandato di arresto, la Camera preliminare ha rilevato che si trattava di mere difformità tipografiche tra dispositivo e parte motiva, presenti nella prima versione del provvedimento ed emendate il 24 gennaio 2025.

Non si trattava, invece, di errori sostanziali relativi ai crimini oggetto di imputazione né alla responsabilità individuale di Almasri, tali da inficiare la validità del mandato di arresto.

La circostanza, poi, che vi fosse una opinione dissenziente al mandato, alla luce del fatto che la CPI può prendere determinazioni a maggioranza, non poteva costituire una valida ragione per l’Italia per contestare la legittimità della decisione.

Infine, i Giudici hanno evidenziato la contraddittorietà della decisione di espellere Almasri in Libia, stante la sua particolare pericolosità per la commissione di gravi crimini internazionali proprio nel Paese d’origine.

Inoltre, i Giudici hanno evidenziato la sussistenza di condizioni che, lungi dal giustificare la condotta dell’Italia, potevano essere tuttavia rilevanti nella determinazione dell’utilità di un suo deferimento alle istituzioni internazionali, quali il carattere repentino e complesso della situazione, la confusione creata dall’intervento di diversi organi e la circostanza che si trattava del primo caso di cooperazione con la CPI,

In aperto dissenso dalla decisione, uno dei Giudici ha rigettato l’interpretazione “estremamente ampia” del collegio circa la natura discrezionale del provvedimento e ritenuto sussistenti nel caso di specie tutte le condizioni previste dall’art. 87 (7) Statuto di Roma.

In particolare, la gravità della condotta dell’Italia doveva desumersi dalle conseguenze della stessa sul procedimento instaurato di fronte alla CPI e, in senso più ampio, sul mandato della Corte di porre fine alle impunità per i più gravi crimini di interesse della comunità internazionale.

La serietà delle violazioni imputate allo Stato italiano era, inoltre, evidente dalla mancata assunzione di responsabilità e volontà a cooperare con la CPI.

Da ultimo, la Giudice dissenziente ha evidenziato come una decisione di non deferire la questione all’ASP si porrebbe in contraddizione con la giurisprudenza della CPI e con gli obiettivi del regime di cooperazione imposto dallo Statuto di Roma.

Il deferimento all’ASP ovvero all’UNSC costituirebbe, invece, l’unico strumento appropriato per promuovere la cooperazione dell’Italia e, più in generale, degli Stati con la CPI.

Alla luce di quanto innanzi, la Camera preliminare I ha, a maggioranza, posticipato la decisione sul deferimento dell’Italia all’ASP ovvero all’UNSC, invitando lo Stato Italiano a presentare entro il 31 ottobre 2025 informazioni circa l’esistenza e l’impatto di eventuali procedimenti interni.

La Camera preliminare ha in primo luogo ricordato il carattere pienamente discrezionale della decisione, che costituisce un rimedio volto a rafforzare l’effettività del regime di cooperazione con la CPI.

In questi anni in cui gravi crimini internazionali vengono perpetrati in maniera manifesta ed in cui i responsabili ostentano sicurezza per la propria impunità, la giustizia penale internazionale sta vivendo un’evoluzione necessaria e silenziosa collegata alla necessità di ricorrere a vari Organismi internazionali per la soluzione dei problemi dei vari Paesi coinvolti.

La denuncia di violazioni delle regole internazionali, anche quando perpetrate dagli Stati più potenti, e il proliferare di strumenti per far fronte alle atrocità di regimi oppressivi e guerre, costituiscono, invero, la funzione più realistica e realizzabile della giustizia penale internazionale nelle condizioni attuali

Il recente mandato d’arresto della Corte penale internazionale contro Benjamin Netanyahu sembra ricalcare quello emesso nel marzo del 2023 contro Vladimir Putin, accusato di crimini internazionali senza che fosse fermato o che le operazioni militari in Ucraina cessassero mentre il beneficio per le vittime dei crimini commessi in quel Paese rimane inesistente.

  • Conclusioni

Come ha scritto di recente un esperto in materia, ” sarebbe bello se la Corte penale internazionale avesse il potere che i suoi critici le attribuiscono”, ma non è così.

Secondo l’opinione prevalente, la scelta di eseguire o meno un mandato d’arresto dipende, quindi, ancora interamente dalla volontà degli Stati ed é inevitabile che il funzionamento dei tribunali internazionali rifletta l’equilibrio di potere tra i vari Paesi che li hanno istituiti in modo da conservare la sovranità necessaria affinché le loro decisioni non gli si ritorcessero contro.

Pertanto, si può affermare che solo con il sostegno politico, la giustizia penale internazionale puà divenire efficiente.

È quanto accaduto, in passato, con i processi di Norimberga e di Tokyo in cui vennero uniti i leader dei Paesi sconfitti nella Seconda guerra mondiale o quando, negli anni ’90, le Grandi Potenze, riunite nel Consiglio di sicurezza dell’ONU, decisero di occuparsi dei crimini commessi nelle guerre nei Balcani e in Ruanda, creando tribunali specifici che pronunciarono sentenze contro centinaia di persone coinvolte assicurandone la custodia dopo la condanna.

Un’analoga efficienza viene meno quando perseguire crimini internazionali non è nell’interesse delle Grandi potenze.

La debolezza dei Tribunali è, in defnitiva, strettamente collegata al problema di applicare le regole in maniera selettiva, a seconda di chi sia lo Stato o l’individuo che le viola.

Dalle molte ricerche svolte sul delicato argomento è emerso che la giustizia del vincitore è una desolante condizione congenita, nata insieme agli Organismi di giustizia internazionali.

Allo stesso modo, e per la stessa ragione, nessuna Corte si è ancora occupata dei principali conflitti armati degli ultimi decenni, che vanno dall’invasione dell’Iraq del 2003 alla guerra civile in Siria, iniziata nel 2011 ed appena conclusasi con la caduta del regime di Assad, dove sono pure coinvolti gli Stati Uniti e la Russia, che ha provocato un esodo biblico verso i Paesi Europei.

La decisione in commento rappresenta, quindi, uno snodo fondamentale nel procedimento aperto nei confronti dell’Italia per la violazione degli obblighi di cooperazione con la CPI.

Se, da un lato, la Camera preliminare si è espressa all’unanimità in termini molto netti e severi sulla mancata consegna di Almasri alla Corte, la decisione di rinviare il deferimento all’ASP ovvero all’UNSC, dando ancora una volta all’Italia la possibilità di presentare osservazioni in proposito, solleva qualche dubbio.

A margine di considerazioni circa l’assenza di rimedi per la mancata cooperazione con la CPI, in un momento storico di particolare messa in discussione dell’attività della Corte, basti ricordare che non sono, allo stato, aperti procedimenti interni volti a valutare le eventuali responsabilità individuali per la vicenda Almasri.

La Camera dei Deputati ha, infatti, rigettato la richiesta avanzata di autorizzazione a procedere del Tribunale dei Ministri nei confronti del Guardasigilli e di altri Ministri pure convolti nella vicenda.

Il che è la dimostrazione di quanto innanzi ricordato.

Proprio la mancanza di rimedi interni esperibili ha indotto una delle Vittime del Generale Libico a ricorrere ad una decisione della CEDU.

La Corte dell’Aja, in una nota, ha affermato che “L’Italia sapeva”facendo esplodere una bagarre politica con un rimpallo di responsabilità.

Il generale Almasri, nel frattempo, è stato rimpatriato e torna in Libia, a Tripoli.

Per la Corte dell’Aja, Almasri resta un torturatore, da punire con la pena massima dell’ergastolo ma per chi era ad aspettarlo a Tripoli, il Generale è un eroe nazionale mentre per chi è detenuto, resta sinonimo di vita. o di morte.

Si sostiene in Dottrina che, sulla delicata questione del fermo dello indiziato, destinatario di un mandato di arresto internazionale, ovvero del condannato in via definitiva da parte dei Giudici della Corte dell’Aja, sarebbe auspicabile una modifica della norma vigente in base alla quale la Procura Generale potrebbe richiedere, una volta acquisiti gli atti del procedimento, la custodia cautelare del ricercato, in attesa di procedere alla materiale consegna alla Corte Penale Internazionale, titolare del procedimento stesso.

Solo in una fase successiva al perfezionamento della custodia, a seguito anche della eventuale impugnazione innanzi alla Corte di Cassazione, ai sensi dell’art. 11 comma 2, e in questo ultimo caso dopo il rigetto del ricorso, riemergerebbe il compito del Ministro, per l’adozione, ai sensi dell’art. 13 comma 7, del decreto di definitiva consegna dell’arrestato in favore dei Giudici dell’Aja.

Prima di questa fase conclusiva, inerente al trasferimento personale del fermato alla CPI, l’art.11 delinea una procedura che coinvolge unicamente la Procura Generale competente della Corte di Appello quale terminale decisionale della custodia disposta.

In conclusione e senza entrare nel merito della discussione politica del fatto, il procedimento seguito in occasione del mancato arresto del Generale Libico risulta del tutto conforme alla disciplina normativa in materia, salvo ad apportarne le modifiche da parte del Legislatore.

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