Cassazione: sentenza n. 11330 del 15/05/2009

Matrimonio e divorzio: matrimonio in genere, prescrizione decennale.
Lunedi 8 Aprile 2013

Svolgimento del processo

Con citazione notificata in data 21/6/1990 A.T. conveniva in giudizio innanzi al Tribunale di Milano V.R., per sentirla condannare al pagamento delle somme percepite e/o prelevate dai beni ereditari del padre dell'attrice, A.S., deceduto senza lasciare testamento il (...omissis...).

La convenuta, costituendosi in giudizio, contestava la domanda e, precisato che aveva convissuto con A.S. more uxorio sin dal 1952, chiedeva, in via riconvenzionale, di accertare e dichiarare il proprio diritto di comunione in ragione del 50% su tre appartamenti e relativi accessori e pertinenze, siti tutti a (...omissis...) - e, precisamente, in Via (...omissis...) e Via (...omissis...) - che assumeva essere stati acquistati da A. S. durante il lungo periodo di convivenza con il proprio determinante contributo economico; in subordine, chiedeva di accertare e dichiarare l'arricchimento senza giusta causa di A. S. in misura pari al 50% del valore di detti immobili, con la condanna degli eredi al pagamento del relativo indennizzo.

Integrato il contraddittorio con l'intervento dell'altra erede e coniuge dell' A., G.A., la causa era istruita con prova orale e documentale e decisa con sentenza in data 16/1/2003, con la quale l'adito Tribunale rigettava sia la domanda principale che quella riconvenzionale, compensando interamente le spese di lite tra le parti.

In particolare - per quanto qui interessa - il Tribunale, precisato che le risultanze istruttorie comprovavano la convivenza more uxorio protrattasi nel tempo tra A.S. e la convenuta, nonchè il contributo lavorativo ed economico da quest'ultima fornito al convivente sino al momento della sua morte, riteneva prescritta l'azione di arricchimento, avuto riguardo alla data dell'ultimo acquisto immobiliare, avvenuto il (...omissis...).

La sentenza di primo grado era gravata da appello da parte della sola V., cui nelle more succedeva D.G.P., intervenuto nel giudizio quale unico erede testamentario.

Con sentenza non definitiva in data 8-2/25-7-2005, la Corte di appello, in parziale riforma, così provvedeva: dichiarava e accertava l'avvenuto indebito arricchimento conseguito da A. S. nel periodo di convivenza trascorso con V.R. a fronte del rilevante contributo lavorativo ed economico allo stesso fornito dalla V. nei lunghi anni di convivenza e sino al momento del decesso dell' A.; dichiarava tenute e condannava le appellate A.T. e G.A., nella loro qualità di eredi legittime di A.S., a corrispondere, in via solidale tra loro, a V.R. un congruo indennizzo determinato nella misura del 50% del valore di mercato alla data del decesso di A.S. dei tre appartamenti, individuati in atti, acquistati dal loro dante causa nel corso della convivenza, secondo l'accertamento da effettuarsi nel prosieguo del giudizio.

La Corte di appello riteneva che la prescrizione fosse stata dichiarata di ufficio e, comunque, che non fosse decorsa al momento della domanda riconvenzionale, nonchè fondata la pretesa di pagamento dell'indennizzo ex art. 2041 c.c., di cui fissava i criteri di determinazione nei termini in dispositivo.

Proposta riserva di impugnazione da parte delle appellate, nel successivo iter processuale veniva espletata una c.t.u. e, all'esito, con sentenza in data 12/27-6-2007, la Corte di appello di Milano condannava A.T. e G.A. al pagamento in favore di D.G.P. della somma di Euro 118.293,62 oltre rivalutazione monetaria secondo indici ISTAT dal 16/4/1988 alla data della sentenza e oltre interessi legali sulla somma rivalutata per il prosieguo; con condanna delle appellate al pagamento delle spese di entrambi i gradi.

Hanno proposto ricorso per cassazione G.A. e A. T., svolgendo sei motivi e chiedendo di cassare, eventualmente senza rinvio, la sentenza non definitiva e quella definitiva.

Ha resistito D.G.P., depositando tempestivo controricorso.

Entrambe le parti hanno depositato memorie illustrative.

Motivi della decisione

1. Con il primo motivo parte ricorrente censura la sentenza non definitiva nel punto in cui ha affermato l'inconferenza della spontaneità delle elargizioni effettuate dalla V. in favore del suo convivente A.S..

1.1. Le ricorrenti denunciano violazione dell'art. 2041 c.c., in relazione all'art. 360 c.p.c., n. 3, osservando che la motivazione, molto succinta in parte qua, si risolve nella generica affermazione della sussistenza dei presupposti dell'azione di arricchimento, nonchè nella considerazione che la V. "confidava legittimamente, dopo un'intera vita trascorsa col convivente ed al suo esclusivo servizio, in una sistemazione matrimoniale sempre promessa (...), ma mai mantenuta" (pag. 8 della sentenza non definitiva); sottolineano che quest'ultima argomentazione non smentisce il rilievo che si trattava di prestazioni patrimoniali rese all'interno della coppia di conviventi more uxorio, con la conseguenza che esse andrebbero inquadrate nell'ambito delle obbligazioni naturali, costituendo un semplice dovere morale e sociale, e non giuridico, quello di fornire all'altro convivente i mezzi per vivere.

A parere delle ricorrenti la decisione si collocherebbe al di fuori dei parametri che governano l'arricchimento senza giusta causa e in contrasto con un orientamento costante nell'escludere l'azione di cui all'art. 2041 c.c., nell'ambito della convivenza more uxorio, trattandosi di prestazioni rese affectionis vel benevolentiae causa e caratterizzate dalla spontaneità dell'adempimento; il che dovrebbe escludere l'arricchimento, quali che siano, per ciascuno degli interessati, le conseguenze economiche vantaggiose o svantaggiose, in quanto causate dalla libera e concorde determinazione delle loro volontà. 1.2. Il motivo è infondato.

Innanzitutto occorre osservare che l'affermazione, contenuta nella sentenza non definitiva, dell'inconferenza della riconducibilità eziologica del danno subito alla volontà della depauperata risulta complementare al precedente rilievo della sussistenza, nel caso all'esame, di tutti gli elementi costitutivi dell'istituto di cui all'art. 2041 c.c., e, in specie, del requisito dell'assenza di una "giusta causa" della locupletazione dell'uno in danno dell'altro convivente, id est dell'assenza di una giuridica giustificazione, che, avuto riguardo a tutte le circostanze del caso concreto, ivi incluso il rapporto di convivenza tra le parti, giustificasse lo spostamento economico-patrimoniale tra le stesse. Del resto l'argomentazione sopra testualmente riportata, su cui si appunta la censura di parte ricorrente, non esaurisce la sua portata nel rilievo dell'aspettativa di una "sistemazione matrimoniale" della depauperata, ma appare, piuttosto, incentrata nella considerazione della diretta dipendenza causale dell'arricchimento dell' A. dall'"esclusivo servizio" ad esso prestato nel corso di tutta la convivenza dalla V. e va letta unitamente ai ripetuti riferimenti, contenuti nel corpo della stessa sentenza, alla provenienza della provvista per gli acquisti immobiliari del primo "anche e soprattutto" dai proventi del lavoro della seconda (pag. 6 della sentenza non definitiva) e all'assenza di una giusta causa del "rilevante contributo economico e lavorativo" fornito dalla V. per gli acquisti effettuati dall' A. durante tutto il periodo di ultratrentennale convivenza (pagg. 8 e 9 della stessa sentenza).

In sostanza - precisato che il motivo all'esame non attiene alla congruità della motivazione, denunciando, piuttosto, violazione di legge - ciò che emerge dal complesso argomentativo della sentenza non definitiva (non particolarmente brillante nell'esposizione, ma, comunque, esaustivo e non censurabile in questa sede) è che l'arricchimento dell' A. è stato conseguente alla conversione a suo esclusivo profitto, mediante l'acquisto di proprietà immobiliari ad esso solo intestate, di contributi economici e lavorativi della V., resi in assenza di un titolo (neppure gratuito) che giustificasse lo spostamento patrimoniale e tali - per rilevanza, continuità e unilateralità degli apporti - da non costituire adempimento dei doveri morali, conseguenti all'instaurazione del rapporto di convivenza.

1.3. Così individuati i presupposti della pretesa indennitaria, ritiene il Collegio che la decisione impugnata si colloca correttamente nell'ambito normativo dell'arricchimento senza giusta causa.

Valga considerare che l'art. 2041 c.c., costituisce una norma di chiusura della disciplina delle obbligazione, concedendo uno strumento di tutela, esperibile in tutti i casi in cui tra due soggetti si verifica uno spostamento patrimoniale (c.d. utiliter versum), tale che uno subisca danno e l'altro si arricchisca, "senza una giusta causa" e, cioè, senza che sussista una ragione che, secondo l'ordinamento, giustifichi il profitto o il vantaggio dell'arricchito.

L'azione ha carattere generale, perchè è esperibile in una serie indeterminata di casi, in quanto espressione del principio per cui non è ammissibile l'altrui pregiudizio patrimoniale, senza una ragione giustificativa; ha, inoltre, carattere sussidiario, perchè è esercitabile solo quando al depauperato non spetti nessun'altra azione, basata su un contratto, su un fatto illecito o su altro atto o fatto produttivo dell'obbligazione restitutoria o risarcitoria ( art. 2042 c.c.). Invero se l'arricchimento costituisce la conseguenza di un contratto o di un rapporto compiutamente regolato, non è dato invocare la mancanza o l'ingiustizia della causa, almeno fino a quando il rapporto o il contratto mantengano la loro efficacia obbligatoria (cfr. Cass. n. 2312 del 2008; Sez. Unite, n. 14215 del 2002).

Da quanto sopra precisato risulta chiaro che nella formula "senza una giusta causa" di cui all'art. 2041 c.c., rientrano, anche, i casi di arricchimento senza la volontà del depauperato, risolvendosi la mancanza di volontà in un'ipotesi di mancanza di causa; e, tuttavia, la non volontarietà dello spostamento patrimoniale non costituisce il tratto esclusivo dell'istituto in questione. Invero l'arricchimento/depauperamento deve avere una giustificazione giuridicamente valida (secundum ius), intendendosi per tale un titolo legale o negoziale idoneo a sorreggere sia l'incremento, sia la connessa diminuzione patrimoniale. Al contrario l'arricchimento risulterà "senza una giusta causa", quando non ha tale giustificazione e, cioè, quando è correlato ad un impoverimento non remunerato, nè conseguente ad un atto liberalità e neppure all'adempimento di un'obbligazione naturale; e ciò in quanto l'ordinamento esige che ogni arricchimento dipenda dalla realizzazione di un interesse meritevole di tutela.

E' il caso di puntualizzare - per quanto qui ci occupa - che il riferimento ad esigenze di tipo solidaristico non è di per sè sufficiente a prefigurare una "giusta causa" dello spostamento patrimoniale, giacchè ai fini dell'art. 2034 c.c., comma 1, occorre allegare e dimostrare non solo l'esistenza di un dovere morale o sociale in rapporto alla valutazione corrente nella società, ma anche che tale dovere sia stato spontaneamente adempiuto con una prestazione avente carattere di proporzionalità e adeguatezza in relazione a tutte le circostanze del caso (cfr. Cass. n. 1007 del 1980).

1.4. Ciò premesso in via di principio, ritiene il Collegio che l'assunto di parte ricorrente, tendente a prefigurare una sorta di inconciliabilità logico-giuridica tra la convivenza more uxorio e l'azione di arricchimento senza giusta, sul presupposto dell'inquadramento delle prestazioni rese dai conviventi nell'ambito concettuale dell'obbligazione naturale, postula che le prestazioni stesse trovino la loro giustificazione, per l'appunto, nel rapporto di convivenza e, cioè, che sì tratti di prestazioni rese nell'adempimento dei doveri di carattere morale e civile di solidarietà e reciproca assistenza che, avuto riguardo alle condizioni sociali e patrimoniali delle parti, devono presiedere alla famiglia di fatto; mentre quando risulti - come nel caso all'esame - che le prestazioni rese da un convivente e convertite (in tutto o in parte) a vantaggio dell'altro esorbitano dagli indicati limiti di proporzionalità e adeguatezza, allora è configurabile una mera operazione economico-patrimoniale, comportante un ingiustificato arricchimento del convivente more uxorio con pregiudizio dell'altro.

1.5. E' appena il caso di aggiungere che, nella descritta situazione, non è neppure estensibile la presunzione di gratuità, propria delle prestazioni lavorative svolte nell'ambito di comunità familiari, la quale avrebbe richiesto la rigorosa dimostrazione di una comunanza spirituale ed economica analoga a quella inerente al rapporto coniugale (cfr. Cass. n. 3012 del 1978). Peraltro siffatta presunzione - da ritenersi operante nella famiglia di fatto nei limiti di cui all'art. 230 bis c.p.c. (cfr. Cass. n. 5803 del 1990) - potrebbe riferirsi solo alla collaborazione data per le esigenze del nucleo famigliare ovvero alla gestione dell'azienda dalla quale la famiglia stessa tragga i mezzi di sostentamento; il che non è dato ravvisare nel caso in esame, per quanto emerge dal testo della decisione impugnata. Invero la tesi delle ricorrenti in ordine alla gratuità delle prestazioni rese dalla V. e alla loro riferibilità causale all'adempimento del "dovere di fornire all'altro convivente all'altro convivente i mezzi per vivere" - prima ancora che alternativa rispetto a quella adottata in sede di merito - risulta riduttiva ed è, anzi, contraddetta dalle riferite risultanze fattuali.

2. I successivi tre motivi di ricorso verranno esaminati congiuntamente attesa la loro stretta connessione, riguardando, tutti, la questione della prescrizione dell'azione di arricchimento.

2.1. La Corte di appello ha ritenuto che la prescrizione fosse stata dichiarata dal Tribunale di ufficio, in quanto la relativa eccezione, solo accennata nella comparsa di intervento volontario in data 14/3/1991 della G., non risultava ribadita nelle conclusioni contenute nella stessa comparsa e, soprattutto, non era stata richiamata nelle conclusioni definitive precisate dall'interventrice e dall'originaria attrice, di modo che, quand'anche si ritenesse formulata, l'eccezione doveva, comunque, ritenersi abbandonata.

In ogni caso la Corte territoriale ha precisato che il dies a quo della prescrizione non era costituito (come ritenuto dal Tribunale) dalla data del (...omissis...) dell'ultimo acquisto immobiliare, ma andava individuato in quello della morte dell' A. e, cioè, nella data di cessazione del rapporto di convivenza, posto che (come, peraltro, rilevato anche dal primo giudice) la V. aveva fornito il proprio rilevante contributo economico e lavorativo, di cui si era avvantaggiato il convivente, fino al momento della morte di quest'ultimo.

In particolare la Corte di appello, da un lato, ha escluso che fosse configurabile l'inerzia del creditore, ritenendo che prima del decesso dell' A. non vi era motivo (nè la volontà e la determinazione) da parte della V. di pretendere la cointestazione degli immobili, anche per le ripetute rassicurazioni provenienti dal primo (secondo cui "tutto ciò che era suo era anche della Sa.") e, dall'altro, ha evidenziato che l'impoverimento della V. si protrasse oltre la data del (...omissis...) e fino alla morte del convivente, se non oltre, avendo la stessa continuato a pagare le rate di mutuo contratto per l'acquisto in comunione di un appartamento in (...omissis...) e a "tamponare" altri impegni assunti dal suo convivente, tra cui quelli derivanti da cambiali emesse per L. 5.904.000 in relazione all'acquisto dell'appartamento in via (...omissis...) e da un'iscrizione ipotecaria per L. 17.000.000 a favore di noto usuraio per l'acquisto dell'appartamento in via (...omissis...).

2.2. Con il secondo motivo parte ricorrente denuncia, ai sensi dell'art. 360 c.p.c., n. 3, violazione e falsa applicazione dell'art. 189 c.p.c., per avere la Corte di appello illegittimamente ritenuto rinunciata l'eccezione di prescrizione, avanzata dalla interveniente con riferimento all'azione di indebito arricchimento proposta in via riconvenzionale dalla V..

In particolare le ricorrenti lamentano che la decisione sia frutto di una concezione formalistica del disposto dell'art. 189 cit., ed osservano che l'eccezione di prescrizione ritualmente formulata in giudizio, non può ritenersi rinunziata, pur in presenza di conclusioni genericamente formulate in termini di rigetto della domanda, in assenza di una condotta processuale incompatibile con la volontà di mantenere ferma l'eccezione di prescrizione.

2.3. Con il terzo motivo parte ricorrente denuncia, ai sensi dell'art. 360 c.p.c., n. 5, contraddittorietà della motivazione in punto di decorrenza del termine di prescrizione dell'azione di indebito arricchimento, ritenuto coincidente, non già con l'ultima acquisizione patrimoniale, ma con la cessazione della convivenza.

A tal riguardo le ricorrenti rilevano che la stipula del contratto ventennale di mutuo relativo all'immobile in (...omissis...) e l'adempimento delle conseguenti obbligazioni non costituivano ragione per spostare la decorrenza della prescrizione dalla data dell'arricchimento dal (...omissis...) a quella della morte dell' A.; denunciano, dunque, l'intrinseca contraddizione derivante dal fatto di ritenere un atto pacificamente privo di danno per la V. - qual era l'acquisto dell'appartamento di (...omissis...), avvenuto in comproprietà tra la medesima e il suo convivente - come generativo di onerose obbligazioni future che, per contro, dovevano necessariamente gravare su entrambi gli acquirenti comproprietari; lamentano, infine, l'ulteriore erroneo riferimento alla sussistenza di mere ragioni di opportunità ai fini dello spostamento dei termine prescrizionale alla morte del convivente.

2.4. Con il quarto motivo parte ricorrente denuncia violazione e falsa applicazione dell'art. 2935 c.c., per avere la Corte di appello erroneamente ritenuto che la prescrizione dell'azione di arricchimento decorra dalla morte del preteso arricchito e non già dall'ultimo atto di arricchimento del beneficiario e della correlativa diminuzione patrimoniale dell'altra parte.

In particolare le ricorrenti deducono che, a mente dell'art. 2935 c.c., il corso della prescrizione dell'azione di indebito arricchimento è impedito dall'impossibilità legale di far valere il proprio diritto e osservano che tale non è il perdurare della convivenza successivamente al compimento dell'atto che si assume aver determinato l'arricchimento. Di conseguenza la Corte di appello avrebbe errato ad escludere la rilevanza dell'inerzia della V. sino alla data della cessazione del rapporto di convivenza.

2.5. Nessuna dei suesposti motivi coglie nel segno.

Innanzitutto le censure delle ricorrenti non investono il punto della sentenza impugnata in cui si afferma che l'eccezione di prescrizione doveva intendersi, non già abbandonata, ma neppure proposta, atteso il non concludente riferimento contenuto nella memoria di intervento.

Si rammenta a tal riguardo che l'interpretazione di qualsiasi domanda, eccezione o deduzione di parte da luogo a un giudizio di fatto, riservato al giudice del merito.

E', poi, dirimente la considerazione che i giudici di appello si sono pronunciati sull'eccezione, ritenendola infondata, con argomentazioni che non si esauriscono nella valutazione dell'opportunità o meno dell'inerzia della V. a fronte delle specifiche rassicurazioni del convivente, ma contengono anche precisi riferimenti fattuali ad erogazioni effettuate dalla stessa in favore dell' A. successivamente alla data individuata dal primo giudice come dies a quo della prescrizione. Invero - ribadito che il diritto a richiedere l'indennizzo per ingiustificato altrui arricchimento si prescrive in dieci anni dal momento in cui l'arricchimento si è verificato occorre dire che la decisione impugnata non si pone in contrasto con detto principio, giacchè essa poggia sulla considerazione della continuità dei rilevanti contributi economico- patrimoniali resi dalla V. in tutto il corso del rapporto di convivenza e, quindi, della definitività del corrispondente arricchimento dell' A. solo alla cessazione di siffatto rapporto.

Inoltre il riferimento al pagamento da parte della V. di rate di mutuo relative all'acquisto dell'appartamento in (...omissis...) (l'unico, acquistato in comproprietà dai due conviventi) non introduce alcun elemento scardinante dell'Iter argomentativo, dal momento che la sentenza continua ad avere il suo supporto motivazionale nella parte non contestata, relativa agli altri impegni, che la V. continuò a "tamponare", conseguenti all'acquisto (da parte del solo A.) dei due appartamenti in (...omissis...) e, più in generale, nel rilievo, condiviso da entrambi i giudici di merito, del perdurante apporto economico e lavorativo della V. con indebita locupletazione del convivente sino alla morte di questi.

4. Il quinto e il sesto motivo (erroneamente individuati in ricorso con i numeri romani 4^ e 5^) si incentrano nella critica del criterio seguito per la determinazione e quantificazione dell'indennizzo per l'ingiustificato arricchimento.

4.1. L'indennizzo è stato parametrato, con la sentenza non definitiva, alla misura del 50% del valore di mercato, alla data del decesso dell' A., degli immobili dallo stesso acquistati durante il periodo di convivenza, considerando, da un lato, il dato temporale della lunghezza del periodo di convivenza tra le parti e, quindi, la conseguente durata, oltre che la rilevanza, del contributo lavorativo ed economico fornito dalla V. all' A. e, dall'altra, la quantità e il valore delle acquisizioni patrimoniali (tre appartamenti in (...omissis...)) che in tal modo il secondo era riuscito a procurarsi, a fronte della modestia degli introiti di appartenente al corpo di Polizia (pag. 9 sentenza non definitiva).

4.2. Con il quinto motivo parte ricorrente denuncia, ai sensi dell'art. 360 c.p.c., n. 3, violazione e falsa applicazione dell'art. 2041 c.c..

A parere delle ricorrenti, il pregiudizio indennizzabile in base alla norma cit. sarebbe, esclusivamente, il danno patrimoniale emergente, mentre la Corte di appello avrebbe riconosciuto l'indennizzo sulla base di un "danno generico e indeterminato, in quanto non quantificato in termini economici, costituito dal mancato o ridotto godimento delle proprie risorse economiche da parte del soggetto che si assume impoverito e/o dal maggiore impiego delle proprie risorse umane da parte del medesimo soggetto nel rapporto di convivenza in concomitanza dell'arricchimento del soggetto convivente che si assume arricchito". Inoltre la determinazione dell'indennizzo sarebbe stata erroneamente effettuata con criterio forfetario, facendo esclusivo riferimento al valore complessivo del vantaggio economico conseguito dal soggetto arricchito e prescindendo dall'effettiva dimostrazione della partecipazione dell'impoverito al conseguimento di detto vantaggio economico.

4.2. Infine con il sesto motivo le ricorrenti denunciano, ai sensi dell'art. 360 c.p.c., n. 5, omessa o insufficiente motivazione sulla quantificazione dell'indennizzo per ingiustificato arricchimento. In particolare rilevano l'insufficienza della motivazione consistente in un mero richiamo alla durata della convivenza e al contributo di lavoro prestato dalla V., neppure approssimativamente indicato, a fronte del riconoscimento di un così cospicuo indennizzo; lamentano, quindi, l'omessa considerazione di altri dati determinanti ai fini del decidere - quali i proventi delle locazioni di altri beni di cui era pacificamente proprietario l' A. prima dell'inizio della convivenza e la cointestazione al 50% dell'appartamento di (...omissis...) - di guisa che la pretesa sperequazione tra le risorse di ciascuno dei conviventi e l'effettivo contributo della V. si risolverebbe in mere presunzioni prive di riscontro nelle risultanze processuali.

4.3. Anche i suddetti motivi, che per l'affinità delle questioni si esaminano congiuntamente, sono infondati.

Invero costituisce ius reception che la nozione di arricchimento di cui all'art. 2041 c.c., va intesa, indifferentemente, sia in senso qualitativo che in senso quantitativo e può consistere tanto in un incremento patrimoniale, quanto in un risparmio di spesa e, più in generale, in una mancata perdita economica; correlativamente il depauperamento può consistere tanto in erogazioni di un'entità pecuniaria, quanto in attività o prestazioni di cui si avvantaggia l'arricchito (cfr. ex plurimis, Cass. n. 21292 del 2007). E poichè l'indennizzo previsto dall'art. 2041 c.c., è finalizzato a reintegrare il patrimonio del depauperato, esso va commisurato all'arricchimento, riconoscendo, in via sostitutiva, al depauperato un quid monetario "nei limiti" dello stesso arricchimento (perchè, altrimenti, si verificherebbe un arricchimento nel senso inverso).

Ciò posto e precisato che, nella specie, gli immobili acquistati in via esclusiva dall' A. durante il periodo di convivenza costituivano parametro di valutazione, oltre che limite massimo della liquidazione, al fine di desumerne l'incremento patrimoniale e/o il risparmio di spesa, dallo stesso conseguito per effetto del rilevante contributo economico-lavorativo della V., ritiene il Collegio che la Corte di appello non si è affatto discostata dal criterio normativo, pervenendo a quantificare l'indennizzo in misura corrispondente al valore del 50% degli immobili in questione. Gli elementi assunti ai fini di siffatta determinazione (sproporzione delle capacità economiche delle parti, prevalenza degli apporti della V. a fronte delle numerose acquisizioni patrimoniali fatte in via esclusiva dall' A.) risultano correttamente individuati e la valutazione, necessariamente equitatativa in relazione ai parametri enunciati, è valutazione di stretto merito e, come tale, non sindacabili in questa sede.

Le ricorrenti deducono che la corretta determinazione dell'indennizzo sarebbe stata impedita dalla mancata considerazione di risultanze processuali ad essi favorevoli, quali l'esistenza di altre entrate dell' A. e l'acquisizione in comproprietà dell'immobile in (...omissis...). Senonchè l'efficacia di tale difesa - a prescindere dalla carenza di autosufficienza - deve confrontarsi con l'altro dato oggettivo emergente dalla sentenza impugnata della prevalenza del contributo lavorativo ed economico fornito dalla V. a fronte dell'esclusiva acquisizione da parte dell' A. di ben tre appartamenti in (...omissis...). Sotto questo profilo le doglianze delle ricorrente si risolvono in censure di merito, peraltro assolutamente generiche, sull'accertamento compiuto dai giudici di appello.

In definitiva il ricorso va rigettato.

Si ravvisano giusti motivi, attesa la natura delle questioni trattate, per compensare interamente le spese del giudizio di legittimità.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso; compensa interamente tra le parti le spese del giudizio di Cassazione.

Così deciso in Roma, il 3 aprile 2009.

Depositato in Cancelleria il 15 maggio 2009

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